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Il caso Venezi e la lunga mano del governo Meloni sulla cultura

La nomina di Beatrice Venezi alla direzione musicale della Fenice non è solo una scelta artistica. È diventata il simbolo di una strategia più ampia che investe cultura, informazione e identità. Una vicenda che solleva interrogativi sulla tenuta democratica del Paese. 

Didier Descouens, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Didier Descouens, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Il 22 settembre, Venezi è stata nominata direttrice stabile del Teatro La Fenice per il periodo 2026–2030. Un annuncio accolto da forti proteste interne: orchestra, tecnici e sindacati hanno parlato di decisione calata dall’alto, priva di trasparenza e senza selezione pubblica. Le critiche non si sono fermate al curriculum – da alcuni ritenuto non all’altezza – ma hanno toccato anche il profilo pubblico della direttrice: figura mediatica, con posizioni conservatrici dichiarate e legami con l’attuale governo. È stata consulente del Ministero della Cultura e ha espresso più volte stima per Giorgia Meloni.

 

Per molti, questa nomina non è un episodio isolato, ma parte di una più ampia strategia di occupazione delle istituzioni culturali da parte del governo. La cultura, in questo disegno, non è solo espressione creativa, ma strumento di legittimazione politica. Si moltiplicano le nomine "di fedeltà", spesso senza bandi pubblici o criteri chiari, mentre cresce il malcontento di chi lavora in teatri, musei, fondazioni.

 

Il servizio pubblico sotto pressione

 

Il campo più visibile di questa trasformazione è la RAI. I vertici editoriali delle testate sono stati riorganizzati, con Fratelli d’Italia in posizione dominante. Voci critiche come Roberto Saviano, Fabio Fazio, Lucia Annunziata sono state allontanate o si sono dimesse. Su Rai3, tradizionalmente la rete più sperimentale e con una forte identità, si è assistito a una netta riduzione dell’informazione d’inchiesta, a favore di una programmazione più in linea su temi come natalità, famiglia, italianità – interpretati secondo l’agenda del governo.

 

Ieri, un episodio significativo ha visto protagonisti il senatore Gasparri e la giornalista Lucia Goracci. Il senatore ha accusato Goracci di “negazionismo” rispetto ai fatti del 7 ottobre, suscitando una forte reazione pubblica. Il caso si inserisce in un contesto di crescenti tensioni tra politica e informazione, dove il servizio pubblico si ritrova spesso nel mirino di spinte politiche e tentativi di controllo narrativo, come accaduto anche con la trasmissione Report guidata da Ranucci.

 

Il precedente del Museo Egizio

 

Un altro episodio emblematico riguarda Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, attaccato da esponenti della destra per avere promosso sconti ai visitatori arabofoni. Nonostante le critiche non fossero fondate su questioni scientifiche o gestionali, alcuni ne hanno chiesto la rimozione. La sua conferma è stata possibile solo grazie all’autonomia della fondazione che gestisce il museo. Il messaggio, però, è chiaro: chi non si allinea rischia.

 

La cultura non è un megafono

 

Sempre più segnali indicano una cultura trasformata in apparato di consenso. Epurazioni, incarichi fiduciari, riduzione del pluralismo, accentramento decisionale: non si tratta più di casi isolati, ma di un disegno coerente. Il rischio è che le istituzioni culturali perdano la loro autonomia, che le scelte si basino sull’appartenenza politica più che sulla competenza.

 

Questo processo non coinvolge solo il mondo dell’arte, ma tocca principi democratici fondamentali: libertà di espressione, partecipazione, trasparenza. Quando il servizio pubblico – dalla RAI ai grandi teatri – appare allineato al potere, la fiducia collettiva si incrina. Il dibattito culturale si irrigidisce e lo spazio per la critica si restringe.

 

Va detto: non tutte le nomine vicine al governo sono prive di merito. Venezi ha una carriera attiva e una forte visibilità. Ma quando tante scelte vanno nella stessa direzione ideologica, il sospetto diventa sistema. La politicizzazione della cultura non è nuova in Italia, ma oggi assume una forma più sistematica. In passato, anche governi di sinistra hanno operato nomine contestate. La differenza è nella frequenza, nella simultaneità e nella coerenza ideologica degli interventi.

 

Rispetto ad altri paesi europei, il modello italiano appare oggi più centralizzato e più vulnerabile alle pressioni politiche. In Francia, lo Stato ha un ruolo attivo, ma le autonomie statutarie delle istituzioni culturali offrono una protezione. In Germania, la cultura è gestita a livello regionale, con meno interferenze del governo centrale. In confronto, l’Italia sembra muoversi in senso opposto: maggiore accentramento, minori garanzie di indipendenza.

 

La nomina di Beatrice Venezi non sarebbe un problema in un sistema pluralista, trasparente, partecipato. Diventa però emblematica in un contesto dove la cultura rischia di diventare uno strumento di legittimazione, più che uno spazio di confronto.

 

In una democrazia matura, la cultura non può essere proprietà del governo. È uno spazio libero, un bene collettivo da tutelare. Difenderne l’autonomia non è solo compito degli artisti: riguarda ogni cittadino.

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