Dio, in filosofia, ha una storia davvero importante. Io riesco a cogliere alcune “querelle” tra tre filoni principali, nella storia della filosofia stessa: chi cerca di eliminare il concetto di Dio, criticando l’aspetto religioso come Marx e il suo «la religione è l’oppio dei popoli» o il pensiero di Feuerbach ne L’essenza del cristianesimo, in cui sostiene che l’uomo si sia tolto le sue migliori abilità per trascenderle a Dio. Il secondo filone è rappresentato da chi non vuole sbilanciarsi, da quelli che possiamo chiamare “moderati”, come lo scommettitore Blaise Pascal che, pur non potendo essere certo dell’esistenza di Dio, scommette comunque sulla sua esistenza, comportandosi in modo giusto e retto: se Dio esiste, Pascal riceverà sicuramente il premio del Paradiso per essere stato un uomo buono; nel caso Dio, invece, non esistesse, non potrà avere rimpianti in quanto avrà comunque compiuto del bene. Il terzo e ultimo filone appartiene, invece, a coloro i quali dimostrano filosoficamente delle prove ontologiche dell’esistenza di Dio: i filosofi della Scolastica, soprattutto Sant’Anselmo e San Tommaso d’Aquino, hanno provato a dimostrare l’inconfutabile prova dell’esistenza di Dio.
Hans Jonas pensa a un Dio come essere autolimitante: limita il suo potere, in favore della libertà umana
Hans Jonas, filosofo tedesco del Novecento, si interroga sul concetto di Dio a partire dalla sua tradizione ebraica. L’evento più drammatico del secolo scorso rivoluzionerà il suo modo di pensare Dio: la Shoah.
Nel 1987 Jonas pubblica Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica. in cui rielabora la proposta di fede di tradizione ebraica in una serie di riflessioni etico-filosofiche.
Egli prova difficoltà a immaginare la contemporanea esistenza tra Auschwitz e il Dio buono e onnipotente. Allora, Hans Jonas pensa a un Dio come essere autolimitante: limita il suo potere, in favore della libertà umana e quindi di una sua propria responsabilità per l’esito dell’avventura di Dio nel mondo. Elie Weisel, su questo evento, era invece più catastrofico: Auschwitz segnava la fine di un’epoca, la piena realizzazione del nichilismo narrato qualche decennio prima da Friedrich Nietzsche: «Dio è morto», decretando così la fine della civiltà occidentale e dei suoi valori. Per Jonas, l’uomo ha una responsabilità che viene concessa da Dio stesso, dall’essere creato a sua immagine e somiglianza: il destino di Dio è nelle mani dell’uomo. La missione dell’opera di Hans Jonas è, dunque, rispondere al nichilismo vissuto nei campi di concentramento con un trattato di filosofia che lasci un messaggio religioso.
L’uomo, ricordandosi di essere a immagine e somiglianza di Dio, che è bontà infinita, è l’unico artefice del proprio destino, ovvero del destino dell’umanità
E questo messaggio si può dividere in tre parti fondamentali: nella prima parte Jonas ripercorre il racconto biblico della creazione sotto forma di mito; nella seconda parte emerge un Dio con nuove caratteristiche: un Dio che diviene assieme all’uomo, che soffre e che, al contempo, si prende cura di sé e del suo destino. Nell’ultima parte, Hans Jonas confronta il Dio della tradizione ebraica con il suo “nuovo” Dio: tra gli elementi fondamentali – la bontà infinita, l’onnipotenza e la comprensibilità dell’uomo – il “nuovo” Dio rinuncia, dopo Auschwitz, all’attributo della bontà, in quanto Dio stesso si ritiene impotente nei confronti del male esercitato dall’uomo, in quanto ne è l’unico responsabile.
Dunque, per Jonas, ogni discorso umano su Dio non può che essere un balbettio.
Esiste una soluzione per provare a immaginarsi un Dio dopo l’esperienza così atroce dei campi di concentramento? Hans Jonas riflette sul concetto di responsabilità: l’uomo, ricordandosi di essere a immagine e somiglianza di Dio, che è bontà infinita, è l’unico artefice del proprio destino, ovvero del destino dell’umanità.
Credo sia una prospettiva molto coraggiosa quella di Hans Jonas, provare a trovare una via per credere alla presenza di un Dio onnipotente nonostante la ferocia vissuta nell’esperienza di Auschwitz. Un grande tentativo di provare a immergere nella triste realtà l’allegra figura divina, che tanto è indispensabile quanto disprezzata dall’uomo stesso nei suoi gesti.
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