Le Forze Armate e di Polizia rispondono e partecipano all’unico scopo “morale” che convenga a un governo: proteggere i diritti dell’uomo, che significa proteggerlo dalla violenza fisica, proteggere il suo diritto alla vita, alla libertà, ai propri beni e alla ricerca della felicità in un mondo dove il conflitto, il compromesso è inevitabile. (cfr. A. Rand, La virtu’ dell’egoismo, a cura di Nicola Iannello, Liberilibri, 2019, p. 52).
Se gli uomini vogliono vivere in una società pacifica, produttiva e razionale, devono accettare il principio fondamentale dei diritti individuali, i quali possono essere violati solo facendo ricorso alla forza fisica. La conseguenza necessaria del diritto dell’uomo alla vita, pertanto, è il diritto all’autodifesa e se una società non fornisse alcuna protezione contro la forza, essa obbligherebbe ciascun cittadino a vivere nel terrore e nel caos, in uno stato di guerra di tutti contro tutti.
Nasce da qui il bisogno di un’istituzione incaricata di proteggerne i diritti nell’ambito di un codice di regole oggettivo, ossia le leggi fondate sui diritti fondamentali e la loro protezione. In questo senso il governo detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza.
Infine, affinché una società possa dirsi libera, il suo governo deve essere controllato, ed è questo il metodo per subordinare la forza al diritto.
Oggigiorno tali principi sono stati dimenticati, ignorati, distorti da una storia che mai si arresta, ma lascia segni profondi negli animi, nelle visioni del mondo, si fissa e si cristallizza in norme etiche e morali. Questo è accaduto in Italia, dato che l’Etica Militare non ha subito nessuna trasformazione, o revisione dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La cronaca recente ha messo in luce una serie di episodi di abuso di potere, di violenza, di criminalità da parte degli Operatori in divisa, come gli episodi di repressione violenta in occasione delle ultime manifestazioni, specie a Pisa e a Firenze. Questo genere di episodi sono spesso occultati da un’omertà favorita dal mito gerarchico insito nella struttura della comunità militare, e, quando troppo evidenti, privati della reale gravità. Ne scaturisce un’immagine macchiata, distorta della divisa, oltre a una progressiva perdita di fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini.
D’altro canto, meno noti, ma altrettanto urgenti, sono i disagi che gli operatori in divisa si trovano ad affrontare: burnout, stress correlato, mancanza di mezzi e strutture idonee, carichi di lavoro superiori dovuti alla mancanza di organico, stipendi inadeguati, scarsa collaborazione tra colleghi o situazioni di mobbing e tutte le derive di una gerarchizzazione di un ambiente come quello militare si possono sommare a dimensioni private anche estremamente problematiche. A questo si collega un fenomeno gravissimo, ancora meno discusso, che è quello dei suicidi in divisa, “eventi suicidari” nel linguaggio tecnico.
Nel 2019, quando ho iniziato ad approfondire l’argomento, l’OSD (Osservatorio dei Suicidi in Divisa fondato da Cleto Iafrate, membro dell’esecutivo nazionale del SIBAS Finanzieri) registrava un “evento” a settimana, un dato sicuramente incompleto poiché basato su segnalazioni e che negli anni più recenti è addirittura aumentato. Si aggiungano ancora quegli eventi non segnalati dalle amministrazioni poiché avvenuti al di fuori del luogo di lavoro e quelli tenuti privati per volontà delle famiglie stesse. Dal primo gennaio 2024 a oggi sono nove gli eventi segnalati, due dei quali verificatisi proprio nel momento in cui scrivo questo mio.
Cleto Iafrate osserva che per accedere nei corpi militari bisogna superare dei test psico-attitudinali severi e selettivi, non proprio alla portata di tutti. Di qui la considerazione che i problemi che spingono molti militari a compiere l’estremo gesto, probabilmente, insorgono in un momento successivo all’arruolamento. Nelle sue interviste spiega come, oltre a fattori che possiamo definire, usando un termine improprio ma significativo, “fisiologici”, ossia riconducibili allo stress connesso al lavoro svolto (nel corso del quale si è spesso a contatto con la sofferenza e la morte) e, soprattutto, riconducibili a problemi di natura personale e familiare (una separazione, una malattia incurabile, un lutto improvviso), a scatenare questi tragici eventi contribuiscano anche “fattori patologici” riconducibili, a suo avviso, ad alcune gravi e anacronistiche storture ancora presenti nel mondo militare e delle forze di polizia a ordinamento militare.
Tali fattori sono una specie di danno collaterale provocato da una malintesa e mal declinata specificità militare (Cfr. C. Iafrate, Quella malintesa specificità militare, in Studio Cataldi), specificità che è funzionale al raggiungimento di un determinato obiettivo che nulla ha a che fare con l’efficienza e la massima operatività dello strumento militare: non solo la volontà del capo costituisce principio di legalità nella comminazione di sanzioni, ma il capo ha addirittura la facoltà di esprimere la sua volontà sanzionatoria quando, come e anche contro chi vuole.
Quello sanzionatorio, dunque, è un potere immenso che, se posto nelle mani sbagliate, potrebbe essere alla base di atti discriminatori o vessatori nei confronti dei militari sottoposti. Un tale potere, osserva ancora Iafrate, presuppone che chi lo detiene sia un uomo totalmente virtuoso e completamente esente da vizi, basse passioni, invidia, spirito di vendetta e di rivalsa. È difficile trovarlo.
In merito Iafrate scrive:
«Tali “storture”, dunque, non possono essere analizzate disgiuntamente dal concetto di specificità militare. Per spiegare a chi è al di fuori del mondo militare cos’è la specificità militare, può essere utile partire dal pensiero del prof. Giuseppe Maggiore, giurista e scrittore vissuto agli inizi del secolo scorso. Il prof. Maggiore nei suoi scritti propose nel 1939 di introdurre anche la “volontà del Duce” nel nostro principio di legalità, ad imitazione di quello hitleriano. Il principio di legalità non è altro che il perimetro del potere: cioè, la legge. Un potere che non sia delimitato dalla legge è incompatibile in uno Stato di diritto ed è potenzialmente esposto all’arbitrio. Questa singolare tesi del prof. Maggiore, che metteva in discussione il principio di separazione dei poteri, il principio di legalità e quello di certezza della pena, rende bene l’idea di ciò che ancora oggi rappresenta la specificità militare.»
Muovendo da queste considerazioni, vorrei provare a offrire una possibile spiegazione che renda evidente come un certo tipo di tensioni espongono l’uomo, e in particolare l’uomo in divisa, al disagio. Per far ciò analizzo la Teoria dei Bisogni Intriseci di Noam Chomsky, esposta da Luigi Anepeta.
La Teoria dei bisogni prende ciò che vi è di essenziale nel cervello: essere programmato, sulla base di un’intersoggettività che caratterizza tutta l’esperienza umana, in ordine a due spinte motivazionali che fanno riferimento rispettivamente ai bisogni e ai diritti dell’Altro e ai bisogni e ai diritti dell’Io. Di conseguenza l’esperienza umana si svolge su di un registro che la vincola ai doveri sociali e ai diritti individuali, e richiede una costante tensione verso l’equilibrio tra bisogno d’integrazione sociale e bisogno di opposizione e di individuazione.
Ora, ammettendo l’esistenza, nel corredo biologico della natura umana, di un bisogno di integrazione sociale che si esprime sotto forma di dipendenza dagli adulti, appare evidente come questo tipo di integrazione sia promossa dal mito gerarchico, poiché essa lo preserva. L’astuzia del mito gerarchico appare orientata a far pagare ogni tentativo critico della coscienza e di attaccarlo al prezzo di una minaccia di un’esclusione sociale; allo stesso modo appare evidente la funzionalità di una connotazione ideologicamente negativa del bisogno di opposizione identificato con una ribellione colpevole.
Questo ricatto culturale, paradossalmente agevolato dalle matrici biologiche che affiorano ancora prima della coscienza critica, secondo modalità “viscerali”, e dunque apparentemente irragionevoli, espone facilmente l’individuo a una razionalizzazione repressiva.
Il fondamento dei bisogni umani rappresenta, pertanto, un vincolo ineliminabile per la cultura e definisce due limiti il cui misconoscimento produce serie conseguenze: l’uno concerne il sacrificio dell’individuazione in nome dell’appartenenza sociale; l’altro l’affermazione dell’individualità al prezzo della rinuncia a ogni significativo legame sociale.
Sappiamo che il bisogno di integrazione sociale, laddove mantiene il suo legame con il sentire, e cioè quando non è pervertito razionalisticamente, rappresenta un vincolo di grande importanza, poiché esso esclude che l’uomo tratti l’altro come oggetto. Esso dunque appare orientato verso una socialità che, per quanto possa essere animata da conflitti, esclude la distruttività. La pulsione della distruttività si configura allora come l’espressione di un’anestesia della sensibilità, e cioè come una scissione del bisogno di integrazione sociale rispetto al sentire.
È possibile rendersi indipendenti da simili pressioni all’interno del sistema-polizia? Di quali strumenti è in possesso l’uomo in divisa per contrastare un possibile squilibrio tra bisogno di integrazione sociale, indispensabile per svolgere il proprio lavoro, e quello di opposizione a ogni agire immorale anche qualora questo provenga dall’interno del proprio gruppo? Quali strumenti possono essere utili nella prevenzione di una anestesia della sensibilità? È possibile l’esercizio del pensiero critico all’interno di un sistema così organizzato? Chi si prende cura dei professionisti della cura in divisa?
Per meglio comprendere questo fenomeno e rispondere a queste domande, è necessario procedere all’interno stesso della concettualità etico-militare per mettere in luce tensioni e problematicità che risulterebbero scarsamente comprensibili alla luce di un sapere solo tecnico-militare, poiché nei fenomeni della guerra, della sicurezza, del potere sono coinvolti i fondamenti morali e metafisici dell’uomo, in relazione al problema della libertà e quindi del ben-essere degli uomini in divisa che si adoperano per la sicurezza, l’aiuto, la cura di noi cittadini.
Grazie alle interviste che personalmente ho rivolto agli Operatori del settore, tramite un questionario dal titolo “Le visioni del mondo della divisa” diviso in quattro sezioni (valori, pensiero, emozione e prevenzione), non solo ho avuto il piacere e l’onore di ascoltare le loro storie, accogliere le loro emozioni, le loro fragilità ma ho anche riscontrato in loro un bisogno reale da troppo tempo inascoltato e che a mio avviso può trovare qualche strumento utile per un cambiamento positivo nella filosofia pratica.
Riporto qui solo alcune risposte:
Uno si arruola a inizio carriera con dei valori, poi, anno dopo anno vede che quello in cui credeva non esiste purtroppo. I miei valori sono l’onore, onore nel senso di rispetto dell’impegno preso nei confronti del cittadino anziché farsi portare dagli eventi e dal menefreghismo che in alcuni casi viene fuori. Onorare il bene comune.
E’ difficile essere fermi nel rispettare le regole poiché è facile lasciarsi corrompere.
Non credo che il cittadino abbia un’immagine della divisa realistica. Il cittadino ritiene che il poliziotto sia un super-uomo, mentre il poliziotto ha gli stessi problemi, le stesse difficoltà e crisi di qualsiasi altro uomo; ma deve nasconderli per continuare a recitare il suo ruolo nella società.
Il cittadino ha una visione della divisa impersonale: sei un manichino in divisa che esegue degli ordini.
Le persone che intraprendono il percorso formativo militare dopo aver avuto altre esperienze lavorative in precedenza, sono meno rigide e vivono il loro lavoro e l’ambiente in cui si svolge in maniera piu’ consapevole rispetto a chi si è formato in giovanissima età.
Le emozioni devono avere molta importanza per rispettare l’altro come essere umano. Provo rabbia davanti alla provocazione, devi saper incassare.
Le emozioni dovrebbero avere importanza pari a 10 ma, di fatto, hanno importanza pari a 1; in quanto il lavoro di un poliziotto ad ordinamento militare consiste prevalentemente nell’ubbidire a degli ordini che non può in alcun modo mettere in discussione. Non c’è alcuno spazio per elaborare emozioni quando si svolge il proprio lavoro. Rabbia, Incredulità, Rancore, Risentimento, Sensazione di Ingiustizia, Giudizio verso le autorità da cui promanano gli ordini, verso la stampa e verso le autorità politiche.
Sarebbe molto utile avere la possibilità di rivolgersi a dei centri di ascolto che siano svincolati dalle autorità militari; cioè centri di ascolto i cui operatori non abbiano alcun legame, diretto o indiretto, con le amministrazioni militari. Inoltre, la presenza di sindacati veri, non finti come quelli che stanno prevedendo, sarebbe molto utile per prevenire le varie situazioni di estremo disagio.
Uno strumento indispensabile è l’ascolto.
Il sistema dovrebbe essere circolare: politica, polizia, cittadino. Con obiettivo sicurezza. Le persone devono conoscere come lavorano le Forze dell’Ordine per essere in grado di comprendere se il proprio paese sia democratico o meno. Il poliziotto libero è una garanzia per il cittadino. Ma dove sono gli intellettuali? Perché nelle accademie a nessuno importa di questo argomento?
Concludo questo mio contributo citando Rand:
«La virtù relativa all’aiuto che si può prestare a chi si ama o a chi si vuole difendere non è il disinteresse, né il sacrificio, bensì l’integrità, fedeltà alle proprie convinzioni e ai propri valori. Un uomo razionale non dimentica che la vita è l’origine di ogni valore e che, di conseguenza, essa rappresenta un legame con tutti gli altri esseri viventi. Egli riconosce che la sua vita è l’origine non solo di ogni suo valore, ma anche della sua capacità di concepire i valori.»
Dunque, ai fini di una vita integra risulta fondamentale un dialogo con se stessi, con l’Altro e con il Mondo che permetta di dare un nome a ciò che si sente e poterlo, quindi, accogliere, comprendere ed esprimere.
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