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Contro la barbarie, impegno e resistenza

Alsazia, 1° agosto 2025. Con la mia famiglia decido di visitare il campo di concentramento di Natzweiler. Siamo tra i Vosgi, a 800 metri di altitudine, in mezzo ai boschi, non lontano dal Mont Sainte-Odile, dove si venera la patrona della regione. È il solo campo di concentramento costruito in territorio francese, quando però l’Alsazia era parte del Reich, per sfruttare una cava di granito rosa; in seguito la manodopera concentrazionaria fu utilizzata per sostenere l'economia di guerra. 

Mathieu Kappler, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Mathieu Kappler, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

I detenuti erano lavoratori forzati polacchi e sovietici, ebrei, rom, omosessuali, delinquenti comuni, antisociali e testimoni di Geova, molti erano i prigionieri politici, erano rappresentate più di trenta nazionalità. Il campo ospitava i prigionieri NN, Nacht und Nebel (Notte e Nebbia), maschi provenienti dall'Europa occidentale, molti dei quali membri della Resistenza, di cui non sarebbe dovuta rimanere traccia.

 

Non si tratta tanto di un luogo della memoria dell’Olocausto (benché vi si ricordi l’uccisione di ben 86 ebrei, avvenuta nella camera a gas del campo nell’agosto del ‘43 per la collezione di scheletri ebraici del professor Hirt), ma piuttosto della Resistenza: “Contro la barbarie, impegnarsi, resistere, combattere”, recitano alcuni cartelli che indicano in quale direzione vada proseguita la visita.

 

Mi colpiscono molte cose in questo luogo, immerso in un rispettoso silenzio, nonostante i numerosi turisti. Mi colpisce la storia di quattro donne (ne voglio ricordare i nomi: Diana Rowden, Vera Leigh, Andrée Borrel e Sonya Olschanezky), combattenti del SOE, “resistenti”: fu detto loro che sarebbero state vaccinate contro il tifo (nel campo si svolgevano anche inquietanti esperimenti medici), mentre venne iniettato loro del fenolo: finirono nel forno crematorio, una mentre era ancora cosciente.

Mrindholt, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Mrindholt, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Mi colpiscono le numerose testimonianze che riferisce l’audioguida: detenuti ridotti a rubare il cibo dei cani delle SS, kapo che infierivano sui prigionieri, racconti di botte e torture, di pubbliche esecuzioni. Mi colpisce apprendere che il più giovane tra i prigionieri era un ragazzino di undici anni.

 

Provo orrore di fronte al forno crematorio da cui, in una sola notte, passarono 106 partigiani della rete "Alleanza" e 35 partigiani del Gruppo Mobile Alsazia-Vosgi, assassinati tra il 1° e il 2 settembre 1944.

 

Ciò che mi colpisce di più, però, si trova a ridosso delle barriere di filo spinato che delimitano il campo, laddove un tempo vi era la fossa biologica. È lì, tra gli escrementi, che venivano gettate le ceneri dei detenuti: altri detenuti trasportavano poi, sulle carriole, il concime negli orti delle SS. C’è una grande scritta ora: OSSA HUMILIATA. Nessun rispetto per l’umanità dei prigionieri, nemmeno nella morte. I rinchiusi tedeschi, però, avevano un trattamento di favore: prima che i loro corpi fossero bruciati, veniva messo loro in bocca un sasso, con scritto il numero di matricola, così che i loro resti potessero essere restituiti alle famiglie.

Mathieu Kappler, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Mathieu Kappler, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Mi chiedo come possa qualcuno infierire così sui propri simili, ignorarne l’umanità al punto da gettarli via nella fogna, dopo averli affamati, picchiati, torturati. Provo un brivido di terrore pensando che tutto questo non è confinato in un passato ormai lontano, che ancora oggi molti di noi, nella civilissima Europa, pensano che gli uomini non siano tutti uguali, che alcuni debbano venire prima di altri, che sia plausibile non soccorrere i naviganti in difficoltà o deportarli in prigioni come quella che il nostro governo ha fortemente voluto in Albania, uomini e donne senz’altra colpa se non quella di aver cercato un futuro migliore, umanità la cui vita viene ritenuta sacrificabile.

 

Penso con orrore al genocidio in atto a Gaza, la cui popolazione viene sterminata perché Israele, gli USA, l’Occidente possano perseguire i propri obiettivi politici ed economici: i bambini di Gaza muoiono per la colpa di essere palestinesi, umanità sacrificabile.

 

Penso ai discorsi di odio dei politici delle destre, ormai diffusamente al potere: hanno sostituito ebrei e slavi con islamici e migranti, l’avversione per gli omosessuali, invece, è invariata.

 

Restare umani significa forse, sopra ogni altra cosa, saper vedere l’umanità di chi non ci assomiglia: i deportati dei campi erano divisi in categorie, avevano “etichette” che ne nascondevano l’essenza di persone: ebrei, gitani, gay, oppositori politici… “notte e nebbia”.

 

Restare umani significa ricordare, con il reporter Vittorio Arrigoni, che apparteniamo / tutti indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini alla stessa famiglia che è la famiglia umana.


Forse, se i soldati israeliani sapessero riconoscere gli innocenti di Gaza come persone, simili a sé e ai propri cari, invece che vedere solo dei palestinesi, quindi dei nemici, non avrebbero il coraggio di sparare su dei bambini che chiedono cibo ed acqua.

 

Allo stesso modo, nel campo di Natzweiler, i prigionieri potevano spingere altri prigionieri al lavoro giù da una scarpata, affinché le SS sparassero loro (in seguito, si sarebbe parlato di un tentativo di fuga e tutti gli aguzzini sarebbero stati premiati): non infierivano su uomini, ma su NN, su zingari o altro.

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