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“Autonomia differenziata”, il rebranding che non ha funzionato

Stretta nel guado di guerre mondiali, e tumulto politico generato delle recenti elezioni europee (tutte tematiche di cui la Bottega ha scritto), la data del 19 giugno 2024 avrebbe potuto surriscaldare il clima gia rovente. È quella la data dell’approvazione definitiva dell’autonomia differenziata da parte della Camera dei deputati italiana.

 

Il “padre nobile” della legge è l’indimenticato ministro Calderoli distintosi quando nel 2010, da ministro della semplificazione incendiò, come un moderno Nerone per taluni detrattori, “375mila leggi inutili”. Lo stesso statista che è stato recentemente condannato a 7 mesi (con pena sospesa) in quanto paragonò una ministra della Repubblica ad un orango. Tra un sorso all’acqua di Pontida ed un rito celtico, il partito che ce l’ha duro è infine riuscito a incanalare la secessione del Paese, in rebranding più accattivante: l’autonomia differenziata.

Ironia della sorte questa grande opera avviene sotto l’egida del governo di destra-destra, governo secondo nella storia italiana, solo a quando c’era “Lvi”, in quanto autoincensatosi portavoce della difesa dell’italianità nell’“infosfera globale”.

 

Venendo al concreto. La legge prevede che le regioni a statuto ordinario possano domandare autonomia legislativa sullo Stato in 23 materie. Si prevede anche una clausola salva unità nazionale, che entra in vigore qualora le regioni non dispongano di risorse economiche per garantire i livelli essenziali di prestazione (lep). La legge non entrerebbe in vigore subito, lo Stato ha 24 mesi di tempo per stabilire i lep per tutte le materie concorrenti, tranne 9 di queste, che sarebbero non soggette a lep, e quindi già plausibili di trasferimento di competenza da Stato a regione.

 

Qualora la regione risulti avere risorse proprie maggiori rispetto ai livelli minimi, può stanziare maggiori risorse al di là dei lep; qualora la regione non garantisca tali lep, a coprire il gap finanziario interverrebbe il fondo di perequazione nazionale. Tale fondo dovrebbe evitare situazioni di disparità di trattamento tra regioni.[1]

 

Sin qui i fatti crudi. Opposizioni, costituzionalisti e buona parte delle stesse regioni sono scesi in trincea ed hanno portato alla sottoscrizione di firme per il referendum abrogativo della legge stessa, il quale, Consulta permettendo, dovrebbe avvenire in primavera 2025. Il quorum delle firme è stato clamorosamente superato in brevissimo tempo.

 

Al di là della dialettica politica e delle schermaglie di convenienza, sull’urgenza o meno, di demolire questa legge già definita “spacca Italia”, ci limitiamo ad approfondire due inconsistenze evidenti che caratterizzano sia il principio di partenza dell’idea secessionista, sia il suo adempimento effettivo.

 

Il governo minimizza i rischi di frammentazione del paese assicurando come il fondo di perequazione serva a prevenire questo. Tuttavia la critica che si solleva sull’adempimento effettivo dell’autonomia differenziata è il modo con cui il fondo di perequazione è stato formulato. Ufficialmente questo vuole limitare le differenze interregionali, in realtà le cristallizza in quanto si fonda sul principio dei costi standard: questo significa che le attuali differenze di spesa tra regioni, anziché diminuire resteranno inalterate, aumentando o ibernando il differenziale tra regioni più ricche e regioni più povere nel Paese.

autonomia differenziata

La seconda critica è sul concetto stesso di cosa sia il "sistema paese", agli occhi dei signori del nord l’Italia; il cavallo di Troia dell’autonomia malcela l’incapacità di coglierne il significato. Se si ragionasse in un’ottica organicistica, con le regioni come sistema e società di persone, si comprenderebbe agilmente come il sud ed il nord siano concetti che non esisterebbero eziologicamente, e nemmeno geograficamente, senza metterli a confronto tra loro, ed in relazione allo Stato centrale. Puntare alla separazione geografica nazionale inoltre ammicca al pensiero thatcheriano secondo cui “la società non esiste, esistono gli individui”. Mutatis mutandis l’Italia come “insieme” non esiste, esistono le regioni.

 

A dimostrare la sciocchezza di tale lega-pensiero, e senza scomodare i padri fondatori, e grandi meridionalisti del secolo scorso, lasciamo parlare la demografia.

 

Ma chi sono i settentrionali? Al 2009 in Lombardia il 43% dei cittadini era di origine meridionale, il 35% nelle Marche, 34% in Emilia-Romagna, 31% in Piemonte, 29% in Veneto; e poi 25% in Umbria, 21% in Friuli Venezia Giulia e, a chiudere, il 18% in Toscana. Negli ultimi 20 anni, secondo recenti studi dello Svimez[2], ulteriori 2.5 milioni di meridionali sono andati a vivere al nord Italia; in media ad oggi, oltre un cittadino su tre oltre il Po’ è meridionale, 1 su cinque è straniero, e meno della metà è di origine settentrionale.

 

Se nel dibattito politico ritornasse al centro il cittadino crollerebbe l’idea separatista, in quanto il nord acquisterebbe il significato di luogo della possibilità e motore dell’intero sistema paese, un sistema a cui concorrono collegialmente le forze tutte, da Tolmezzo a Marzamemi. Se l’Italia fosse un corpo umano, sarebbe come lamentarsi del fatto che i polmoni non camminino o che le gambe non parlino. In un paese normale, anziché picconare sull’unità nazionale si dovrebbe lavorare all’abbattimento dei differenziali di sviluppo regionali, “esportando”, questo sì, best practices politiche da aree più dinamiche ad aree depresse del paese, lavorando sull’attenuazione dei differenziali di crescita visto che, suona banale ma, se cresce il sud cresce il Paese.

 

 

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