Per chi suona la campanella?
- Vincenzo Pantalena

- 15 set
- Tempo di lettura: 4 min
Oggi 15 settembre poco meno di 7 milioni di studenti in Italia (dall’infanzia alle superiori) tornano sui banchi con l’inizio del nuovo anno scolastico. Ma per chi suonerà la prima campanella? Significativo è già il dato: il nostro Paese non aveva mai avuto così pochi alunni nella sua storia (6 milioni e 900mila unità è il dato più vicino alla realtà), perdendo circa 124mila studenti rispetto all’anno scorso e questo solo a causa della denatalità, fenomeno che purtroppo continua a pesare anche sulla nostra economia (aumento del rapporto tra pensionati e lavoratori, diminuzione delle entrate fiscali ed aumento delle spese di welfare) ed ha cause ben note: mutata percezione sociale della genitorialità e della famiglia, aumento dell’età media delle madri al primo figlio, incertezza economica, insufficiente rete di welfare per conciliare lavoro e genitorialità.

Il calo delle nascite, come ben noto, ha dei suoi effetti anche sul sistema scuola: accorpamento degli istituti scolastici o delle classi (anche nella forma difficilmente gestibile della pluriclasse nella scuola Primaria), chiusura di alcune scuole, soprattutto nelle aree periferiche e interne, riduzione dei posti di lavoro.
Ma non sono solo queste le sfide che il sistema di istruzione in Italia deve affrontare.
Se la scuola è uno di quei settori del welfare nel quale ogni Paese moderno che si rispetti deve necessariamente investire per costruirsi un futuro, l’Italia sembra non avere a cuore il proprio futuro, se consideriamo che ormai da 20 anni spende appena il 4% del proprio PIL in Istruzione, collocandosi molto al di sotto della media europea che si attesta al 4,9% (dati OCSE). Ecco perché in molti vedono come scellerata la scelta dell’attuale governo (Vertice NATO del 25 giugno 2025) di impegnarsi a portare dall’attuale 1,5% al 5% l’investimento pubblico in armi in 10 anni, spendendo 700 miliardi di euro in più da togliere necessariamente ad altre voci di spesa pubblica (tra cui l’Istruzione).
Questo dato economico sembra non avere un collegamento diretto con i processi di insegnamento/apprendimento e con il miglioramento del nostro sistema di Istruzione. Purtroppo invece il disinvestimento (inteso anche come mancato investimento) in Istruzione si traduce inevitabilmente in un peggioramento del livello degli apprendimenti negli studenti, del grado di soddisfazione e di preparazione dei docenti, del funzionamento delle scuole.
Si potrebbero citare diverse statistiche e sondaggi, ma è sufficiente guardare agli esiti delle prove INVALSI del 2024: circa il 40% degli studenti delle classi III delle scuole medie non raggiungeva una competenza alfabetica adeguata, mentre il 44,4% non raggiungeva competenze adeguate in matematica (Fonte: Istat). Entrambi i dati sono peggiorati rispetto al 2018, quando le percentuali erano rispettivamente del 34,4% e del 39,7%.
Di fronte a sfide di questa portata, non sembrano essere certamente l’inasprimento della disciplina sul voto in condotta (la platea degli studenti con 5 o 6 in condotta si attesta tra l’1,6% e il 3,6%) o il divieto degli smartphone la soluzione dei problemi. Piuttosto, la focalizzazione del dibattito pubblico su queste tematiche rischia di creare l’illusione che non ci siano altri e ben più fondamentali ambiti di riforma da cui il nostro sistema di Istruzione necessita di essere coinvolto (e con le adeguate risorse): dal sistema di reclutamento dei docenti (ancora troppo dipendente dal “mercato dei CFU” che da decenni tiene in ostaggio migliaia di candidati all’insegnamento, trasformando l’accesso alla professione docente in una gara tra poveri e la scuola in un ammortizzatore sociale, dove trovare “un posto” di lavoro sicuro a prescindere dalla reale vocazione all’insegnamento) alla loro retribuzione (tra le più basse in Europa), dalla diseguale opportunità di accesso al tempo pieno nella scuola dell’infanzia e primaria nelle varie regioni italiane (in media un bambino nato nelle regioni del Nord accumula l’equivalente di un anno scolastico in più rispetto ad un suo coetaneo nato nel Mezzogiorno, grazie ad un servizio di mensa che gli consente di trascorrere più ore a scuola) al divario territoriale legato all’edilizia scolastica (solo il 22,6% degli edifici scolastici nel Mezzogiorno possiede il certificato di agibilità, a fronte di un neanche esaltante 68,8% per le regioni del Nord). Ma l’elenco potrebbe ancora continuare.
Sarebbe poi interessante riuscire a trovare un giorno dati imparziali e completi circa l’impatto che nelle singole scuole ha prodotto negli ultimi anni la mole significativa di risorse economiche provenienti dal PNRR con le sue varie progettualità, per valutarne l’effettiva incidenza sul livello degli apprendimenti degli studenti: in che misura tali interventi hanno avuto una reale ricaduta didattica (se pure ci si è presi la briga di valutarla in modo obiettivo)? Certamente, anche laddove i progetti europei possono aver offerto un’opportunità non solo di compensazione economica per il personale scolastico ma di implementazione delle azioni di contrasto della dispersione scolastica e di sostegno alle povertà educative, non ci si è chiesti abbastanza se la soluzione ai problemi più profondi della scuola italiana possano trovare una risposta coerente nel proliferare di progettualità concorrenti e talvolta interferenti con il curricolo formativo.
L’auspicio, dunque, all’inizio di questo nuovo anno scolastico, è che tra un dibattito e l’altro sui più recenti provvedimenti sulla scuola (mirati ad “aggiustamenti” di superficie) non si spenga negli addetti ai lavori la lucida consapevolezza che essa necessita di una cura ben più forte, non di semplici palliativi.





