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Magistratura e politica. Golia contro Golia

Una delle consuetudini tutta italiana è la continua lotta tra magistratura e politica. Una ressa che ha radici vecchie, ma soprattutto profonde, in virtù dell’inchiesta mani pulite che spazzo via non solo la cosiddetta Prima Repubblica, ma un certo modo di fare politica. In un certo modo oggi, utilizzando la stessa grammatica della nostra Premier, l’unta dal signore e, come sovente sogghigna lei e il suo codazzo di adulatori, dagli italiani (sette i milioni su una platea di cinquanta votanti, senza dimenticarci i ventidue milioni che hanno disertato le urne), questo fu atto dovuto o anche quello voluto?

 

Perché questa lotta continua a riempire le pagine dei giornali e il dibattito pubblico? Qual è il suo «polso interno», la sua più intima causa? È presto detto. Non perché fa ascolti, ma perché la stragrande maggioranza dei politicanti seduti sugli scranni del parlamento possiedono, direttamente o indirettamente, quote o azioni di aziende più o meno grandi. Basti solo ricordare, da ultimo, il rinvio a giudizio della ministra del turismo sul caso Visibilia. Lo scontro è inevitabile. Nella sua Politica, Aristotele ricorda una legge molto particolare in uso a Tebe, la quale vietava la partecipazione agli affari pubblici a chi non si fosse astenuto dal commercio per un periodo di almeno dieci anni. Ma i greci, almeno quelli di un tempo, erano persone serie.

 

Ogni atto o giudizio della magistratura, cari rappresentanti, è dovuto. Questo perché ogni loro movimento non è dettato da una propria singolare “presa di giudizio”, ma dalla legge. Ogni loro atto, se obbedisce, banale a dirlo, alle proprie funzioni, non può essere tacciato come “voluto” perché non è dettato da una propria massima imbevuta d’ideologia, ma da quel Diritto positivo, accettato e senza il quale, per dirla nuovamente con Aristotele, l’uomo sarebbe la più abietta delle bestie. Dello stesso avviso è lo Hegel, il quale nei suoi Lineamenti afferma che il Diritto e le consuetudini di uno Stato rappresentano una forma di libertà realizzata. I due dei tre rami di ogni democrazia che si rispetti sono autonomi solo se ognuno di loro obbedisce solo a sé e nessuno degli altri si immischia in affari che non sono propri. Ma se per l’esecutivo la magistratura fa politica, decantando continuamente il “rosso delle loro toghe”, anche la politica fa la magistratura. Ed è proprio questo il motivo. Non sembra che le corti si siano pronunciate a sfavore del “bonus elettrodomestici”, quello sì che sarebbe un atto voluto e politico, ma su un caso giudiziario, giacché il noto libico aveva sulla propria testa un mandato internazionale, e poco conta se esso è stato emesso nel momento in cui si accinge ad abbandonare le nostre coste.

Yair-haklai, Attribution, via Wikimedia Commons
Yair-haklai, Attribution, via Wikimedia Commons

Invece sembra sovente che l’esecutivo si diverta ad affermare cosa sia dovuto e cosa no, se ogni atto è lecito o che è giusto che vada a processo o no e, da ultimo, le modalità d’accesso alle carriere. Basti solo sapere che la tesi della nuova riforma della giustizia è sostenuta da Di Pietro ed era foraggiata da Berlusconi per esserne in disaccordo. Ma il potere ha questo vizio, qualunque sia il colore del dipinto, esso possiede una connaturata volontà di potenza che non può domare. E dove domina questa volontà l’equilibrio è una vuota idea.

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