I doveri morali hanno autorità sulle nostre menti. Si impongono come necessità inviolabile. Impensabile trasgredirli. Preferiremmo saperci matematici mancati o persone di cattivo gusto anziché scoprirci inadempienti.
È però convinzione comune che i doveri siano imposizioni esterne, divieti o addirittura fonte di disturbi emotivi. Soprattutto quando vengono vissuti come quelle che lo psicoterapeuta statunitense, Alber Ellis, definisce doverizzazioni, aspetti rigidi che trovano la loro sorgente in convinzioni e credenze irrazionali su come dobbiamo essere, su come devono essere gli altri, su come devono essere la vita e il mondo circostante.
L’interessante analisi del fondatore della Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) meriterebbe un approfondimento a parte. Nel presente contributo vorrei invece offrire un’altra possibile prospettiva sui doveri morali, quella secondo cui noi facciamo un’esperienza genuina delle obbligazioni intese come ragioni morali ed è, in quanto tali, che hanno autorità sulle nostre menti.
L’autorità delle ragioni morali è connessa in modo peculiare alla nostra identità
Ciascuno di noi ha condotte che approva o disapprova. Per prendere in prestito un’espressione cara a uno dei padri della fenomenologia tedesca, Max Scheler, ognuno di noi ha un ordo amoris. Che non è da intendersi come un sistema di «valori che ineriscono alle cose», quel nucleo d’ordine che la mente può afferrare; bensì come l’ordine di ragioni per agire che la nostra mente si dà e da cui scaturiscono degli obblighi. Ragioni per le quali vale la pena vivere. In questo senso ognuno di noi si sente vincolato innanzitutto a qualcuno.
Pensate al dovere di prendersi cura dei figli, o viceversa dei genitori, di un fratello, una sorella, un amico, del proprio partner. L’obbedienza a questo dovere non ci viene estorta nostro malgrado. Non agiamo per imposizione esterna. Quando l’obbligo entra in collisione con altre considerazioni su ciò che dobbiamo fare, rende secondari tutti gli altri nostri interessi che riorganizziamo in modo da annullarne l’urgenza. Eppure nessuno di noi lo avverte come sacrificio. È una necessità. La violazione sarebbe impensabile non perché ci sentiremmo assaliti da sensi di colpa insostenibili o perché esposti al biasimo e all’altrui condanna, ma perché non ci riconosceremmo nella persona che si mostra capace di violare quell’obbligo. Come scrive Carla Bagnoli: «L’autorità delle ragioni morali è connessa in modo peculiare alla nostra identità.» Ed è per questo che scoprirci vili o inadempienti rispetto ai doveri che abbiamo verso una persona a noi cara ci fa più male che saperci matematici mancati.
La mente morale è proprio questo: una mente auto-riflessiva che si pensa autonoma
Ma Bagnoli si chiede: come spiegare questa «costellazione di fenomeni» che riguarda l’autorità della morale sulle nostre menti? Escluso che derivi la sua giustificazione dal nostro interesse, da ciò che ci conviene, poiché ne facciamo un’esperienza incondizionata, la filosofa avanza la seguente proposta: le ragioni morali
«possiedono tale autorità su di noi perché siamo esseri riflessivi e autonomi, capaci di obbligarci reciprocamente.»¹
Non si tratta quindi di doverizzazioni basate su convinzioni irrazionali (irrational thoughts and beliefs) che secondo Ellis suscitano disfunzioni emotive quali ansia, frustrazione, disistima, perché si impongono alle nostre menti con standard elevati e obbiettivi irraggiungibili. Il fenomeno genuino di vincolarci a ragioni morali si comprende, invece, focalizzando l’attenzione su una risorsa che ci appartiene in quanto animali dotati di ragione, cioè la nostra auto-riflessività. Questo ci permette di spiegare anche la possibilità di mettere in discussione e superare quei sistemi di credenze non funzionali al nostro benessere. Perché entrambe le esperienze operative - questa come quella di vincolarci reciprocamente - hanno la loro condizione di possibilità nella capacità della nostra mente di pensarsi autonoma. «La mente morale è proprio questo: una mente auto-riflessiva che si pensa autonoma.»
L’autonomia è una conquista individuale e politica, una richiesta che facciamo agli altri e a noi stessi
Parlare di ideale di autonomia non significa adottare una psicologia morale o un’ontologia speciale. L’autonomia non va qui intesa come proprietà metafisica dell’individuo. È una tesi fenomenologica: un modo di rappresentarsi che ci permette di interagire con gli altri riconoscendoli come aventi pari dignità. Per cui l’autonomia non è una pretesa di indipendenza dagli altri e dalle nostre tradizioni: una delle obiezioni canoniche che le viene mossa. L’autonomia è una conquista individuale e politica, una richiesta che facciamo agli altri e a noi stessi. Per questo va messo in chiaro che la morale non deve essere rappresentata come un codice di istruzioni su come vivere, ma come un vincolo sulle nostre deliberazioni.
Qual è questo vincolo? La morale non descrive un dominio di oggetti speciali, come per esempio la “prospettiva realistica” dell’ordo amoris di Scheler: «un regno rigorosamente oggettivo e indipendente dall’uomo». La morale prescrive un modo specifico di entrare in relazione con gli altri, una relazione governata dal mutuo rispetto e riconoscimento. Una struttura di relazioni che ha autorità sulle nostre menti. Non perché costretti da norme e sanzioni, ma perché possiamo ragionare. Pensando moralmente, acquisiamo una motivazione valida a intrattenere relazioni governate dal mutuo rispetto e riconoscimento.
Potrebbe non accadere. Potremmo mostrarci insensibili di fronte alle richieste di rispetto degli altri. Ma l’identificazione di questa insensibilità come di una mancanza morale, e così anche il funzionamento di modi, quali l’eduzione, la sensibilizzazione, la socializzazione, o di sistemi sanzionatori che garantiscono la capacità di interagire significativamente con gli altri, si comprendono e hanno senso solo adottando la prospettiva dell’ideale di autonomia della persona inteso appunto quale ideale di mutuo riconoscimento e rispetto.
[1] C. Bagnoli, L’autorità della morale, Feltrinelli Editori, Milano 2007, p. 10.
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