Per spiegare l’utilizzo della narrativa biblica da parte del governo israeliano attuale (insediatosi il 29 dicembre 2022), bisogna necessariamente ricostruire le fasi della nascita del sionismo religioso di estrema destra.
Possiamo identificare come inizio della deriva estremista del sionismo religioso la Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967. Innanzitutto, è importante ricordare che alle origini il sionismo nacque come un movimento nazionale laico e senza base religiosa, a conseguenza di due fattori storici del XX secolo: il declino del capitalismo e il nazionalismo europeo, che furono accompagnati dalla mancata realizzazione del socialismo. Questi eventi causarono la crisi della piccola borghesia ebraica, che, espulsa dalle sue attività economiche tradizionali a seguito delle norme antigiudaiche, non riuscì a proletarizzarsi a causa dell’economia capitalista in declino. L’animo profondamente socialista del sionismo, si evince dal fatto che le prime forme di insediamento ebraico nel territorio palestinese furono i kibbutz una forma associativa volontaria, basata su regole rigidamente egualitarie e sul concetto di proprietà collettiva. Inoltre, nei primi decenni della colonizzazione della Palestina, gli ebrei ultraortodossi erano contrari a trasferirsi, poiché ritenevano che il ritorno nella Terra di Israele dovesse avvenire solo con l’arrivo del Messia e non per volontà umana.
Allo stesso tempo, dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948, il primo ministro Ben Gurion, utilizzò strategicamente la religione come strumento di coesione nazionale, introducendo l’insegnamento religioso obbligatorio nel programma scolastico, pur non includendo partiti clericali nel governo. Fin dai suoi albori, infatti, Israele ha mostrato tratti di una teocrazia: i poteri dei tribunali rabbinici in materia di diritto di famiglia, eredità dell’impero ottomano, furono sanciti nell’ordinamento dello Stato israeliano. E questi tratti sono evidenti ancora oggi, non ci si può sposare, divorziare o rimanere in Israele se non secondo le norme della Torah, e lo status personale dei cristiani, musulmani e drusi è governato dalle rispettive autorità religiose. Le norme alimentari ebraiche sono obbligatorie in alberghi, ristoranti, cucine militari, scuole, aerei e navi e l’allevamento e il consumo di carne di maiale sono permessi solo in una zona cristiana strettamente definita intorno a Nazareth. Inoltre, negozi, luoghi di divertimento e trasporti pubblici sono chiusi dal venerdì al tramonto fino al sabato sera.
La fede, dunque, sin dall’inizio sembra avere un ruolo cruciale nella coesione nazionale israeliana, diventando evidente durante la Guerra dei Sei Giorni. In quel periodo, lo sciovinismo dei capi militari e il fanatismo reazionario dei rabbini si unirono al misticismo biblico, alimentando l’impresa storica di Israele, quella di creare uno stato ebraico. Durante il conflitto, Israele occupò luoghi sacri per l’ebraismo, tra cui il Muro del Pianto (Kotel), la Cisgiordania, e siti come la tomba di Rachele vicino Betlemme, la tomba dei Patriarchi a Hebron, la tomba di Giuseppe vicino Nablus e Beit El, dove si crede che il re David abbia collocato l’Arca dell’Alleanza. Il fatto che la guerra fosse poi durata sei giorni (5-10 giugno 1967), come i sei giorni della creazione del mondo prima del riposo nel settimo giorno (Shabbat), venne interpretato come una conferma del disegno divino.[1]
A partire dal 1967, il sionismo religioso cambiò, dunque, programma. Fino ad allora, l’osservanza religiosa e il sionismo politico coesistevano ed avevano entrambi la volontà di creare uno Stato per gli ebrei. Tuttavia, dopo la guerra, la sacralità e l’indivisibilità della terra divennero temi centrali e imprescindibili. Il passaggio dalla nozione di Medinat Israel (lo Stato di Israele) a quella di Eretz Israel (la Terra di Israele) sottolineava la priorità della terra sullo Stato, rendendo impossibile ogni forma di compromesso politico. Questa situazione si intensificò dopo gli accordi di Camp David del 1979, quando Israele rinunciò al Sinai in cambio della pace con l’Egitto, smantellando diciotto insediamenti creati nella penisola dal 1967. In questo periodo, iniziarono a crearsi movimenti di coloni che ritenevano necessaria la violenza su larga scala per impossessarsi o difendere i propri insediamenti dai palestinesi, specialmente dopo la decisione del 1978 del capo di stato maggiore Rafael Eitan, di sostituire la leva militare con la difesa attiva degli insediamenti. Questo alimentò una mentalità giustizialista, creando una frattura tra chi obbediva allo Stato (soldati) e chi alla terra (coloni). In questo clima, nel 1984 venne eletto alla Knesset Meir Kahane, nato a New York ma emigrato in Israele nel 1971, fondatore del partito Kach che desiderava trasformare Israele in una democrazia ebraica, epurandola da tutti i palestinesi e ponendo la Torah al centro della politica. Sebbene il partito fosse stato bandito dalle elezioni del 1988, mostrò numerosi sostenitori. Questo contesto, in particolare l’amplio consenso verso posizioni più estremiste, spiega in parte il fallimento del processo di Oslo del 1993 dal lato ebraico, poiché le concessioni ai palestinesi vennero percepite come un tradimento del vero scopo del sionismo: appropriarsi di tutta la Terra di Israele.
Tale posizione venne abbracciata da Benjamin Netanyahu, eletto nel 1996 e poi successivamente nel 2009, 2013, 2015 e 2022. Nel suo libro del 1993 A Place Among the Nations: Israel and the World, Netanyahu, arrancando su fonti storiche, sosteneva che Israele dovesse riprendere i territori della Giudea e Samaria, vietando ai palestinesi di autodeterminarsi e di avere uno stato [2].
Queste posizioni estreme, sono oggi chiaramente condivise da una grande parte della società israeliana e si ritrovano in numerose interviste, ultima quella realizzata dalla giornalista Francesca Mannocchi per il programma Propaganda Live [3] a Daniella Weiss. Considerata la “madrina dei coloni”, Weiss è promotrice del reinsediamento a Gaza e immagina non solo “Una Gaza tutta Ebraica” ma anche un territorio ebraico che va “dall’Egitto all’Iraq, dal Nilo all’Eufrate”. Alla domanda di Manocchi “Dove andranno i rifugiati di Gaza?” risponde: “Andranno in Egitto, Turchia, Canada, Stati Uniti, in tutti i paesi del mondo... come tutti i rifugiati, come gli afghani o i siriani […]. Non è la loro terra. Gli arabi non resteranno a Gaza. Punto. Questa volta è finita, il prossimo passo è che gli ebrei vadano là […] costruiremo delle comunità a Gaza. Ristabiliremo l’area di Gush Katif [4] nella zona nord fino alla parte sud. Quindi la giustizia del mondo moderno è lasciarci tornare a Gaza”.
In questo momento dunque c’è una forte esigenza di rivisitare e reinterpretare il passato al fine di plasmare il futuro, e allo stesso tempo di giustificare la campagna israeliana a Gaza, che sta causando la distruzione e la morte di migliaia di palestinesi, come frutto del disegno divino.
Nel prossimo articolo verranno approfonditi i casi in cui questa narrativa viene messa in atto e come il giudaismo venga manipolato per fini politici e militari.
[1] Arturo Marzano “Alle origini del Sionismo religioso”, Limes 3 (2023), 97-106.
[2] Dal suo secondo mandato Netanyahu assecondò quindi i numerose richieste dei partiti ultraortodossi in riferimento al finanziamento delle scuole per lo studio della Torah le yeshivot e l’esenzione al servizio militare.
[3] (25/05/2024).
[4] Blocco di 17 insediamenti israeliani nel sud della striscia di Gaza che fu smantellato nell’agosto 2005 secondo il Piano di disimpegno unilaterale israeliano.