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Ogni (santa) mattina a Jenin, 1941-2023

Scadute

Susan Abulhawa - decltype, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Susan Abulhawa è una scienziata palestinese naturalizzata statunitense, paese in cui vive ed in cui, oltre ad una brillante carriera professionale, ha fondato “Playgrounds for Palestine”, che si dedica ai bambini dei territori occupati in quella fetta di mondo dalla quale è scappata, ancora adolescente, insieme alla sua famiglia. Numerosi i suoi saggi sul contesto in cui opera da volontaria e tre romanzi all’attivo, dei quali “Mornings in Jenin” appunto, edito nel 2006, è tradotto in 32 paesi: un best seller internazionale, nel cui titolo sembra riecheggiare l’ansia e la frustrazione che accompagnerà la protagonista, Amal, fin dalle prime pagine. Anche la traduzione italiana rende appieno il ritmo: “Ogni mattina a Jenin”, appunto.


“Io e mamma uscimmo in un batter d’occhio. Aveva la testa avvolta nel suo foulard preferito, gli orli le ricadevano sulle spalle. Era un regalo che le aveva fatto papà anni prima, quando aveva ricevuto il suo primo stipendio come bidello alla scuola dell’Unrwa per i bambini del nostro campo. Ormai ingiallito, un tempo era stato bianco e con raffinati ricami sul bordo. Quando il corpo di mamma si ricongiunse infine alla sua mente, che aveva lasciato questo mondo subito dopo la guerra del 1967, conservai quel foulard, e ancora lo tengo riposto al sicuro, insieme a ciò che mi resta della mia famiglia, in una piccola scatola”. Così nel capitolo 10 intitolato "Quaranta giorni dopo. 1967” ovvero quando la famiglia di Amal, che ha già perduto, letteralmente, un figlio durante la Al-Nakba (La Catastrofe) del 1948, apprende anche della scomparsa di Hassan, il padre, ma riesce ad abbracciare di nuovo il figlio primogenito, Yussef, scampato all’orrore. In una singola sequenza narrativa, il vuoto incolmabile di chi non ha casa, patria, una tomba per i propri cari.


Il racconto inizia ad ‘Ain Hod, un paesino ad Est di Haifa nel 1941, e continua fino al 2003 quando parte della famiglia riesce a riparare negli Stati Uniti, grazie alla figlia di Amal, che è cittadina americana e che decide di allontanare i suoi cugini e gli amici più cari dall’inferno del campo profughi che dà il nome all’opera… un brandello di terra, di due chilometri quadrati e mezzo, espulso dal tempo e imprigionato in un eterno 1948.

Jenin 1839 - opera di David Roberts, Public domain, via Wikimedia Commons

La spinta a scrivere un romanzo sulla questione israelo-palestinese è arrivata all’autrice, a sua volta figlia di profughi nel Kuwait a seguito proprio della “Guerra dei Sei Giorni”, durante una visita a Jenin nel 2002. Cosa era accaduto? Lo racconta lei stessa: Era il 31 Marzo 2001. Il 20 Marzo un attentatore suicida aveva ucciso sette israeliani in Galilea come rappresaglia per i trentuno palestinesi uccisi da Israele il 12 Marzo, come rappresaglia per gli undici israeliani uccisi l’11 Marzo, a loro volta come rappresaglia per i quaranta palestinesi uccisi l’8 Marzo da Israele, e così via e così via. Come un filò filò infinito si potrebbe risalire di nuovo al 1941, quando la Palestina era ancora un mandato britannico e la Seconda Guerra Mondiale era in corso e gli orrori della Shoah erano una realtà atroce e in Cisgiordania iniziavano a cadere le prime bombe sioniste e altri ebrei a Gerusalemme protestavano perché non erano d’accordo a cacciare via gli abitanti per creare uno Stato di Israele.

La pace è necessaria come è necessario restituire ai popoli la propria memoria e la stessa narrazione che permette a una collettività di riconoscersi come nazione. Che è poi la lezione dello storico Edward Said.


Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico. I dodici mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel cuore della Palestina. Gli anziani di ‘Ain Hod sarebbero morti profughi nel campo, lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra, e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto di ladri.

Bambini palestinesi a Jenin , città della Cisgiordania - utente: Tarek , CC BY-SA 3.0, tramite Wikimedia Commons

Di recente sono tornate in televisione le immagini del campo profughi di Jenin, parzialmente distrutto l’ultima volta nel 2002 senza che sia mai saputo il numero delle vittime – il massacro è documentato dal regista palestinese Mohammed Bakri nel film “Jenin, Jenin”. Fermo lì dove lo abbiamo conosciuto, quando i Palestinesi furono sfollati da Haifa e da circa 48 villaggi del Nord della Cisgiordania e nel 1953 sistemati qui, intorno alla stazione ottomana, intanto diventata il cuore del campo che oggi ospita circa 14.000 persone, integrato pienamente al tessuto urbano, che ne conta oltre 50.000: il tutto ai margini del muro israeliano. I recenti raid israeliani hanno distrutto anche l’ingresso sul quale campeggiava la storica frase “Il campo è una stazione temporanea fino al ritorno”.


La pace va perseguita ad ogni costo, ma probabilmente tenendo conto di tutte le voci, di tutte le realtà e le esigenze che compongono quel mosaico martoriato di guerra che è la terra di Palestina e rispettandole.


Medusa Cha Cha Cha

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