Il filosofo coreano Byung Chul Han sostiene che lo sfruttamento tipico del rapporto tra capitalista e lavoratore sia stato sostituito dall’autosfruttamento nella società della prestazione, manifestazione del neoliberismo e della scomparsa della dialettica servo padrone di hegeliana memoria. È proprio così? La mia personale opinione è che sfruttamento e autosfruttamento convivano. Esiste sicuramente l’autosfruttamento, come disposizione individuale a sacrificarsi sul lavoro in una sfida continua a superarsi senza che ci venga esplicitamente richiesto, come esiste ancora chi sfrutta il lavoro altrui unicamente per il proprio tornaconto e guadagno personale.
Uno dei segni con cui distinguiamo una condizione di sfruttamento è la retribuzione, quando questa è insufficiente non solo per garantirci un equo compenso per il lavoro che svolgiamo, ma anche per assicurarci un tenore di vita dignitoso.
L’articolo 36 della Costituzione italiana è sicuramente uno dei più disattesi. Non è certo un segreto che in Italia ci sia una percentuale di lavoratori che con il loro lavoro non sono in grado di garantirsi un livello di vita dignitoso, i cosiddetti lavoratori poveri.
Questo fenomeno è molto più ampio e grave nei Paesi poveri del mondo, ma è presente, con diverse gradazioni, anche in quelli ricchi e dipende più dal livello delle disuguaglianze che dal livello di PIL o dal reddito medio pro capite.
Tra le soluzioni a questo fenomeno, che sono state adottate in molti Paesi, c’è il salario minimo, cioè una paga base oraria minima, sotto la quale non si può scendere, imposta per legge che possa garantire un tenore di vita dignitoso e possa essere uno strumento per superare lo sfruttamento. Per esempio in Germania è stato istituito alcuni anni fa per contrastare il fenomeno dei minijob e constava, all’inizio in 9€ l’ora. Di recente, anche per compensare l’effetto dell’inflazione è aumentato a circa 12€.
Sono diversi anni che si dibatte di salario minimo in Italia. Ci sono formazioni politiche che lo hanno sempre sostenuto e altre che si sono aggiunte tra queste da poco. I sindacati fino a pochi anni fa facevano una certa resistenza, soprattutto a porre una cifra per legge, individuata in 9€, sostenendo che ciò avrebbe ostacolato la stipula ed il rinnovo dei Contratti Collettivi Nazionali (CCNL).
Purtroppo sappiamo benissimo che esistono contratti nazionali firmati anche dai sindacati confederali che sono ben lontani dai 9€ ipotizzati dalla proposta di legge sul salario minimo.
Estendere la validità del contratto nazionale a tutti i lavoratori, proposta sostenuta dai sindacati confederali fino a poco tempo fa, non è sufficiente a garantire la scomparsa (o almeno un contrasto efficace) del lavoro povero. Così, giustamente secondo me, almeno CGIL e UIL hanno rivisto la loro posizione.
Questo dibattito sul salario minimo ha un parallelismo con quello sul Reddito di Cittadinanza. Ci sono forze politiche e del mondo industriale (ma anche sindacale abbiamo visto) che si oppongono al salario minimo, sostenendo che la contrattazione sia uno strumento sufficiente e che una cifra per legge la ostacolerebbe. Ma in certi casi sembra che il problema sia che i 9€ siano troppi. Sono grosso modo gli stessi che avversavano il RDC (e, nel caso dei partiti di governo, lo hanno abolito), non solo perché disincentiverebbe le persone dal mettersi a disposizione del mercato del lavoro a qualsiasi condizione, ma anche perché l’importo del RDC faceva concorrenza a chi sarebbe stato costretto a elargire paghe ben superiori a questo reddito.
Tutto ciò mi fa affermare che non c’è la volontà politica per intervenire a contrastare il fenomeno del lavoro povero. Sicuramente a tal fine non basta il salario minimo, ci sono anche altri fattori strutturali al sistema produttivo italiano sui quali incidere, quali l’abbondanza di settori produttivi a basso livello di innovazione tecnologica, ma almeno sarebbe un primo passo. Tra l’altro sono dell’opinione che queste misure siano utili proprio per tutti i lavoratori che hanno uno scarso potere contrattuale. Chiaro che chi opera in settori dove il personale non è facilmente sostituibile per l’alto livello di professionalità o perché non è possibile spostare l’attività in un Paese con il costo del lavoro più basso, avrà un potere contrattuale maggiore di chi ha mansioni poco qualificate e facilmente sostituibili. Per questo penso che il salario minimo sia uno strumento solidaristico a favore dei meno fortunati. Le leggi dovrebbero puntare a tutelare i più deboli che i forti partono già da posizioni di vantaggio.
Così, tornando al punto di partenza, se pensiamo ad un lavoro che non garantisca neppure un livello minimo di vita dignitoso, pensiamo subito che sia una forma di sfruttamento. Ed è sicuramente così. Ma questo non esclude che questo sfruttamento sia accompagnato dall’autosfruttamento, cioè la stessa persona disposta ad accettare condizioni economiche inique, si pone nell’atteggiamento mentale di mettersi in competizione continua con se stesso, indipendentemente dal fatto che qualcuno glielo imponga. Una vittima con due carnefici.