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Il mostro giuridico del premierato Frankenstein

Sommario:


Breve triste storia


Terza Repubblica. Responsabilità storica. Consolidamento della democrazia dell’alternanza. È il corredo di retorica instagrammabile con cui Meloni ha annunciato la proposta di riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del premier e la modifica di 4 articoli della Carta con l'intenzione di garantire governi più stabili e scongiurare i ribaltoni e governi tecnici. Poco conta che, sulla base di ben due referendum (2006 e 2016), pochi si fidino e che nessun leader che ne abbia fatto un cavallo di battaglia – Craxi, Segni, D’Alema, Berlusconi, Renzi – ne abbia tratto giovamento, «con il che – ironizza Filippo Ceccarelli su La Repubblica – la faccenda lambisce il pensiero magico e il processo riformatore si tira appresso un che di iettatorio». Forse Meloni usa quella retorica proprio per esorcizzarlo.


Venerdì, 3 novembre, «il mostro giuridico del premierato Frankenstein» viene ufficialmente varato dal consiglio dei ministri e Meloni, nel presentarlo in conferenza stampa, non è meno avara di retorica e toni enfatici: «madre di tutte le riforme», «una rivoluzione che ci porta nella terza Repubblica, mai più governi tecnici e ribaltoni». Sì, Terza Repubblichina! Come titola l’articolo di Andrea Carugati su Il Manifesto. Per Massimo Giannini su La Repubblica, invece, è «un putsch in stile Orbàn, dispotico e autocratico», «un “golpetto all’amatriciana”, pretenzioso e sgangherato. Qui più che la Donna-sola-al-comando, siamo alla Patria-persa-nel-Caos».


La Meloni voleva l’elezione diretta del presidente della Repubblica, come di programma elettorale, ne è venuto fuori un premierato. Per «salvaguardare – dice lei – il ruolo di garanzia del Quirinale che è molto apprezzato dagli italiani» e cercare «il consenso più ampio anche delle opposizioni». Poi mette le mani avanti, memore della disastrosa esperienza di Renzi: «L’esito di questa riforma non avrà nulla a che fare con l’andamento del governo. Io ho fatto quello che dovevo fare e ora consegno la proposta al Parlamento e poi agli italiani col referendum: serve all’Italia, non a me». Certo, certo! Aglio, fragaglia, fattura che non quaglia.

Quirinale.it, Attribution, via Wikimedia Commons

Il contenuto della riforma


Ma vediamo cosa prevede di preciso la riforma che “ritocca” 4 articoli della Costituzione e porta il nome della ministra per le Riforme Elisabetta Casellati. Ecco gli specchietti:

1. Governo
Elezione diretta del premier
Il presidente del consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni. Votazione su scheda elettorale unica, insieme alle Camere.
2. Maggioranza blindata
Due chance per fiducia
Il premier eletto potrà chiedere la fiducia alle Camere per due volte. Se la prima volta “scivola”, il capo dello Stato gli rinnoverà l’incarico di formare il Governo. In caso di ulteriore voto negativo, si procede allo scioglimento delle camere. Tuttavia c’è la norma antiribaltone che blinda la maggioranza.
3. Governi tecnici addio
Norma anti-ribaltone
Meloni avrebbe voluto il simul stabunt, simul cadent: cioè, se il premier eletto cade, si va alle urne, il meccanismo in vigore nei Comuni. Favorevole anche la ministra delle Riforme Casellati. Ma si è optato per un'altra via.
Prima di sciogliere le camere, in caso di seconda sfiducia (anche durante il mandato), è prevista nell’art. 4, la norma anti-ribaltone voluta da Lega e FI. Il capo dello Stato potrà affidare l’incarico a un “parlamentare che sia stato candidato in collegamento” al premier eletto per attuare il programma con cui questi si è presentato. La chance vale una sola volta. In caso contrario, scioglimento camere e si va alle urne.
Con questa norma si spera di evitare i governi tecnici (Ciampi, Monti, Draghi).
4. Legge elettorale ad hoc
Premio al 55% ma dubbi sul ballottaggio
Per blindare il premier eletto ci sarà una legge elettorale ad hoc. Nel ddl costituzionale si intende prevedere un premio capace di garantire il 55% dei seggi a chi vince. Resta da chiarire se il premier sarà eletto a turno unico o con il ballottaggio. Nodo che spacca il centrodestra, Laga contraria. Per le opposizioni il ballottaggio è indispensabile. Casellati assicura che sta già lavorando alla legge elettorale.
5. Tetti non previsti
No al limite di mandato per il capo del governo
Non è previsto per il premier eletto alcun limite di mandato. Potrebbe essere però introdotto dal Parlamento. È l’articolo 2 del ddl a disciplinare l’elezione del premier e a modificare l’articolo 92 della Carta.
Nel ddl Casellati cambia anche l’articolo 88 della Costituzione, dove si parla dello scioglimento di una sola Camera: non sarà più possibile.
6. Le nomine del Quirinale
Stop ai senatori a vita, rimarranno gli “emeriti”
Abrogato il secondo comma dell’articolo 59 della Carta dove sono previsti senatori a vita nominati dal Colle. Personalità cioè «per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico e letterario». Resteranno in carica gli attuali Segre, Monti, Rubbia, Piano, Cattaneo. In seguito saranno senatori a vita solo i presidenti emeriti della Repubblica. Come mai? “Con la riduzione del numero di parlamentari si è ridotto il margine delle maggioranze”, afferma Casellati.
7. L’iter
Per l’approvazione tempi lunghi
L’ok della riforma non sarà breve: le leggi di revisione della Costituzione sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Probabile che la legge sia sottoposta al referendum, visto che la maggioranza non ha i numeri per approvarla con i due terzi delle Camere.

- Fonti: La Repubblica e Il Sole 24 Ore di sabato 4 novembre 2023.


Commenti in merito


Ex presidente del Senato e senatore di Fratelli d'Italia, Marcello Pera - Senato Italiano, CC BY 3.0 IT, via Wikimedia Commons

Mentre il presidente del Senato, Ignazio La Russa nega che l’elezione diretta del premier svuoti i poteri del capo dello Stato e del Parlamento, Marcello Pera, ex presidente del Senato e senatore di Fratelli d’Italia, a Il Sole 24 Ore, dopo aver ammesso che è «un modo palesemente insincero» dire che si vuole lasciare “intatte” le prerogative del Presidente della Repubblica, osserva: «È evidente che se si rafforza, fino al massimo dell’elezione diretta, la figura del Primo ministro necessariamente si indebolisce quella del Presidente della Repubblica: certe cose che il secondo prima faceva, dopo non potrà farle più. Il rischio è che, essendo entrambi forti, si instauri una diarchia istituzionale e una politica o un bi-presidenzialismo, forte di tensioni e attriti». Che è come dire, leggendo tra le righe, che il ruolo del capo dello Stato non è stato invece indebolito abbastanza. In ogni caso, la riforma sembra utile a renderlo insignificante, in vista di una dolce morte.


Non solo spariscono i senatori a vita, quindi anche il suo potere di nominarli. Viene svuotato il potere stesso di nomina del primo ministro, così come quello di scioglimento delle Camere. Diventano, più che altro, atti dovuti e al Quirinale resta un ruolo più notarile perdendo la funzione di equilibrio e bilanciamento, soprattutto nelle fasi di crisi. E anche se non dovesse funzionare questa pagliacciata della riforma, l'altro suo uso possibile potrà sempre essere quello di «arma di pressione sul Quirinale», come osserva Giannini: se, nel corso dell’attuale legislatura, «il Colle diventa pietra d’inciampo per l’azione di governo, lei [Meloni, ndr.] potrà sempre puntare la pistola del “premierato all’italiana” sulla tempia di Sergio Mattarella».

Marco Travaglio - direttore de Il Fatto quotidiano - Niccolò Caranti, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Questa «ciofeca» di riforma, precisa anche Marco Travaglio, non riguarda le persone, ma lo Stato che ne viene fuori: una Repubblica non più parlamentare, né semipresidenziale, ma semidittatoriale. L’elezione diretta del premier non esiste in nessuna democrazia: fu introdotta in Israele nel ’92 e poi abolita dopo tre elezioni perché produceva instabilità (l’opposto dello scopo dichiarato dai nostri "padri ricostituenti"). Inoltre, il combinato disposto con una legge elettorale che dà il 55% dei seggi alla coalizione che arriva prima, anche se non prende neppure la metà dei voti, blinda la falsa maggioranza in una torre d’avorio inespugnabile.


C'è poi un drastico ridimensionamento che coinvolge il Parlamento, il quale dovrà limitare la sua azione a quanto deciso dal premier. Altrimenti, tutti a casa. «Non è un caso – scrive Carugati – che i partner minori di Fdi, Salvini e Tajani, abbiano insistito per inserire la norma sul secondo premier: per loro sarebbe l’unica possibilità di tenere a freno lo strapotere del premier eletto (con questi numeri al prossimo giro la candidata sarà Meloni) e per tentare di soffiarle il posto». Rimane comunque che Meloni ha precisato che il rispetto del programma verrà inserito in costituzione, «dunque chi cambia linea politica sarà incostituzionale».

Segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein - European Commission (Jennifer Jacquemart), Attribution, via Wikimedia Commons

Non ha tutti i torti allora il professor Angelo Schillaci secondo il quale la proposta della destra «asseconda l’attuale tendenza alla personalizzazione del potere». Per la segretaria del Pd, Elly Schlein, è anche un’«arma di distrazione di massa, ma non per questo è meno pericolosa» e, su La Stampa, ricorda che «quando Giorgia Meloni ci convocò per un confronto, portammo le nostre proposte: dalla sfiducia costruttiva alla limitazione della decretazione d’urgenza e il rafforzamento degli istituti di democrazia diretta. Se si vuole ridare peso al voto degli elettori, la strada non è il premierato, ma una legge elettorale che restituisca il diritto di scelta ai cittadini dei propri rappresentanti». Sul Corriere, invece, Giuseppe Conte: «Nel nostro sistema ci sono degli interventi da fare, ma per garantire la stabilità dei governi, che è il vero problema. Mentre qui si vuole rafforzare il potere del governo, anzi del solo primo ministro, esautorando sia il capo dello Stato, sia il Parlamento dei rispettivi poteri».


Conclusioni


Riprendo le parole di Giannini: «Secondo la premier, il disegno di legge costituzionale che riscrive quattro articoli della Carta del ’48 è naturalmente “una svolta storica”, come del resto tutte quelle prodotte fin qui da una destra ex missina che – assurta al potere dopo decenni di alterità e di marginalità politica – consuma ora molta più Storia di quanto ne produce, immersa com’è nell’ideologia dell’anno zero e nel mito ri-fondativo della Nazione».


Ora, come ha infine osservato Stefano Folli, sempre su La Repubblica, «se il progetto della destra è davvero autoritario, concepito per fare dell’Italia una seconda Ungheria, allora non è sufficiente una risposta alla mera conservazione dell’esistente. Questa posizione sarà inevitabile in caso di referendum, quando si porrà l’aut-aut. Ma fino ad allora il problema dell’opposizione parlamentare sarà di impedire che sia la destra, come si dice, a “dettare l’agenda”. Cioè ad imporre il campo da gioco e le regole della competizione. Per cui se alla fine il disegno Meloni-Casellati sarà ritirato, dalle parti del Pd potranno vantare un successo di non poco conto. Se sarà modificato a fondo, al termine di una lunga trattativa, potranno ugualmente dire d’essere stati decisivi. E se poi alla fine dell’iter s’imporrà come più realistica un’altra architettura istituzionale, magari proprio il “cancellierato” filo-tedesco, il gruppo dirigente del centrosinistra avrà conseguito una vittoria memorabile. S’intende che quest’ultima opzione allo stato delle cose è molto improbabile. Ma non più di quanto sia verosimile che il disegno costituzionale avviato ieri veda la luce nella sua forma attuale».

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