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Ha ancora senso parlare di riforme?

Quando ci troviamo di fronte la parola riformismo, a cosa la associamo principalmente? Riforme o riformismo per decenni sono stati sinonimo di progresso, nel senso di un’estensione dei diritti democratici, della possibilità di partecipare alla vita politica ed economica in prima persona, di migliorare il sistema del welfare, di ampliare diritti e tutele del lavoro. Tutte le riforme per anni sono andate in questa direzione, anche se non è stato un percorso lineare senza ostacoli. In alcune fasi della storia, a livello locale o globale, ci sono stati dei periodi di stagnazione o arretramento del processo riformistico. Ma, più o meno da almeno un secolo a questa parte, magari addirittura dalla Rivoluzione Francese, questo processo è andato avanti, un po’ come un fiume che scorre dalle sue sorgenti nei monti, che può trovare ostacoli, in alcuni punti scorrerà rapido e in altri rallenterà adagiandosi placidamente nella pianura, ma alla fine nulla potrà impedirgli di sfociare nel mare.

 

Per chi sostiene che l’attuale sistema economico sia il migliore dei mondi possibili, il processo riformistico è praticamente arrivato a compimento, il fiume è già sfociato nel mare. Secondo loro, un unico modo di vedere i rapporti economici a livello globale, e anche a livello interpersonale, si è giustamente affermato come migliore e vincente. Ogni ulteriore riforma dovrebbe solo assecondare questo processo, oliare meglio i meccanismi. Per i sostenitori del pensiero unico neoliberista la priorità è produrre ricchezza, e su questo punto sarei anche d’accordo, magari ci sarebbe da discutere sul come. Ma la redistribuzione di questa ricchezza non è contemplata perché ostacola il libero svolgersi delle forze che regolano il mercato. Per garantire in tutti i modi che questo processo di accumulo della ricchezza non si interrompa, il percorso riformistico, quello vero, ha subito una battuta di arresto e anche degli arretramenti da almeno un trentennio a questa parte.

 

Così nell’ultimo trentennio, quando si parla di riforme, quasi sempre si tratta di adeguare il sistema del welfare, dei diritti e delle tutele del lavoro, a far funzionare il libero mercato. In questo periodo, riforme sono state sinonimo di privatizzazione di molti servizi pubblici (mancano sanità e scuola, ma ci stanno lavorando), riduzione del welfare, dell’intervento dello Stato nell’economia (tranne quando si tratta di salvare il grande capitale finanziario), delle tutele e dei diritti del lavoro, riduzione della funzione redistributiva del fisco. Tutto ciò con l’intenzione di favorire il libero mercato in modo da creare ricchezza, senza un piano chiaro su come redistribuirla, affidando questo compito alla buona volontà dei capitalisti secondo la teoria dello sgocciolamento, che poi non si è mai realizzata nella pratica. Insomma, il riformismo ormai, nella migliore delle ipotesi, è diventato una maniera di arginare, contenere, la valanga travolgente del nuovo ordine neoliberista, in modo da mantenere almeno un simulacro di stato di diritto di fronte all’affermarsi della pura legge del più forte.

 

Una storia, quella del riformismo progressista che affonda le sue radici nella nascita della corrente che seguiva il pensiero di Eduard Bernstein (1850-1932), all’interno del più grande partito marxista alla fine dell’Ottocento, l’SPD, il Partito Socialdemocratico Tedesco. La sua idea era che il capitalismo fosse riformabile e, partecipando al sistema liberale parlamentare, si sarebbero raggiunti migliori risultati per la classe lavoratrice (allora si parlava senza problemi di proletariato, cioè la classe che non ha la proprietà dei mezzi di produzione) che non seguendo la strada rivoluzionaria. Per decenni il riformismo ha puntato a ottenere risultati concreti per migliorare la condizione di vita dei lavoratori e dei più poveri ed è indubbio che li abbia raggiunti nell’Europa Occidentale soprattutto dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta. Pensiamo, in Italia, al Sistema Sanitario Nazionale (SSN) istituito nel 1978, o allo Statuto dei Lavoratori del 1970. Per non parlare del progressivo miglioramento delle condizioni di vita e di reddito per gran parte della popolazione ottenuti con l’azione e la contrattazione sindacale.

 

Successivamente, con la caduta dell’Unione Sovietica e di un modello, che per quanto si possa accogliere o avversare, era alternativo al Capitalismo, l’aspettativa poteva essere l’affermarsi definitivo del riformismo socialdemocratico. 


https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sticker_Exit_capitalism,_Durbuy,_2024.jpg
DimiTalen, CC0, via Wikimedia Commons

Purtroppo, dal mio punto di vista, le cose non sono andate così e i partiti cosiddetti progressisti si sono sempre più appiattiti verso il pensiero unico neoliberista accogliendo in toto l’ideologia del dominio del mercato su tutto. Nelle migliori delle situazioni sono riusciti ad arginare questo processo, ma nella sostanza si sono adattati al sistema e hanno assecondato spesso più gli interessi delle lobby economiche, che quelle delle fasce deboli della popolazione.

 

Non è facile capire il motivo profondo di questo decadimento o forse addirittura del fallimento del riformismo socialdemocratico, al punto che le fasce popolari sono presidiate politicamente più da partiti populisti di destra. Forse il motivo profondo e storico è aver avuto una linea politica adattiva e opportunistica, come direbbe (se fosse viva o se potesse commentare la contemporaneità) Rosa Luxemburg (1871-1919), ma senza un obiettivo superiore, almeno senza un’idea sociale forte da contrapporre a quella dominante.

 

Al momento attuale, per come stanno le cose, già un riformismo che riprendesse il suo significato originario e ottenesse risultati di miglioramento delle condizioni di vita e dei diritti delle classi subalterne, puntando a non lasciare indietro nessuno, sarebbe rivoluzionario.

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