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Conte, il qualunquista e il cavallo di Troia di cui la sinistra farebbe bene a liberarsi

«Oggi è nato qualcosa che porterà a grandissimi cambiamenti. La Rete non la ferma nessuno!» furono le parole con cui Beppe Grillo, il 4 ottobre 2009, giorno della festa di San Francesco di Assisi, dal palco del teatro Smeraldo di Milano, annunciava la nascita ufficiale del Movimento 5 stelle. Ad applaudire duemila persone, tra cui Adriano Celentano, Claudia Mori e Pietro Ricca. «E chissà dov’era l’avvocato Giuseppe Conte, quel pomeriggio, quindici anni fa» si chiede l’editorialista, Marco Damilano, tra le colonne del Domani di oggi.

Conte, il qualunquista e il cavallo di Troia di cui la sinistra farebbe bene a liberarsi

Già dov’era? Un qualunquista, un problema che la sinistra deve risolvere, un cavallo di Troia che il Pd farebbe bene a mettere fuori dalle mura: è il ritratto di un altro editoriale, quello di ieri, del direttore sull’Unità, Piero Sansonetti. Parole dure, certo, ma che colgono nel segno. Giuseppe Conte, l’Avvocato del popolo, un tempo sconosciuto, che ha ottenuto la cattedra da giurista grazie al suo capo ufficio e la nomina politica dall’ex ministro Bonafede. Privo di qualunque biografia politica fino alla soglia dei sessant’anni e oggi punto di riferimento di una certa fascia di popolo, non grande. Un qualunquista che non ama la destra, che però è amico di Trump e (forse) di Salvini, con cui preparò un decreto per perseguitare i migranti. È finito, per i misteriosi intrighi che ogni tanto la storia si diverte a inventare, a capo di un movimento di sinistra, erede del grillismo, pacifista, antifascista. Ed è stata questa sua forza: non essere esistito fino a quel momento. Poi improvvisamente si è scoperto filo-leghista, immediatamente dopo estremista di sinistra e pacifista. Asettico, fluido, trasparente, nel senso di inconsistente, incapace cioè di fermare la luce o la vista.

 

La Lega e Grillo cercavano proprio questo tipo di personaggio, gli serviva il nulla ben pettinato per fare un premier- zero. Poi Conte fu scelto dal M5Stelle come leader e costretto a imparare in fretta un po’ di frasi di sinistra, dette così, alla rinfusa. Il partito che gli è stato consegnato era molto robusto, il più forte d’Italia. Forse, in termini numerici, il più forte d’Europa. Con più del 34% dei voti. Una struttura interna complicata, ma altamente democratica. L’ideologia sottesa era la partecipazione dal basso e il giustizialismo. Ora questa partecipazione è stata del tutto cancellata e il M5Stelle è diventato il partito più personale che esista in Italia. Il Congresso è in corso ma la discussione è proibita. La partecipazione è intorno al 2% degli iscritti. La struttura non è eletta ma calata dall’alto. Grillo emarginato. Il movimento viaggia sotto al 10. La sua azione politica è tutta costruita su un solo obiettivo: danneggiare il Pd e in particolare colpire la leadership di Elly Schlein. La sensazione diffusa è che l’ex premier non voglia infatti formare alcuna alternativa reale all’attuale governo Meloni, ma che guardi indifferente sia a destra che a sinistra.

 

Sono queste le ragioni forse che si celano dietro ai capricci e agli alibi che accampa pur di minare ogni tentativo delle opposizioni di allearsi per un progetto unitario. L’ultimo di questi è Renzi, il rottamatore, che in ogni caso non farebbe male a fare, a sua volta, un bello e grosso passo indietro. Tuttavia, di questo si tratta: di un alibi, di un capro espiatorio, usato da Conte per giustificare le sue manovre. Come nel caso del cda della Rai, alle cui nomine ha partecipato, incurante della linea comune “aventiniana” che ci erano dati gli alleati e causando persino una frattura nell’alleanza Pd Avs. Ma è noto che gli inciuci tra Conte e Meloni sulla Rai risalgono a mesi prima del ritorno del figliuol prodigo nel cosiddetto campo largo. La cui fine, tra l’altro, sia a livello nazionale che regionale, è stata da Conte stesso decretata, strombettandola in maniera volgare e meschina, ma non inattesa, guarda caso, proprio in un’intervista a Bruno Vespa su TeleMeloni.


«Finora il Pd non ha preso di petto il problema – scrive ancora Sansonetti. Ha cercato vie d’uscita diplomatiche. Contorsioni. Che però alimentano l’ambiguità e non hanno sbocco. Conte è esattamente quello che si chiama il cavallo di Troia, e l’unico modo per salvarsi è metterlo fuori dalle mura.» Ma la domanda che si pone il direttore dell’Unità è la seguente: come liberarsi di Conte senza per questa ragione rompere coi Cinque Stelle? «Non avrebbe senso rompere con un partito che ha al suo interno una discreta forza di rottura, del tutto compatibile con il socialismo. Ma certo è impossibile proseguire una azione politica che tenda ad andare in profondità nel riformismo e ad opporsi alla spinta reazionaria e fascista che alimenta l’attuale maggioranza, senza prima liberarsi di una componente qualunquista e oggettivamente di destra. Cioè – e siamo sempre lì – della leadership di Conte.» E conclude: metterlo «alla porta costerà qualche sconfitta elettorale? Forse sì, forse no. Ma restare con Conte vuol dire radere a zero ogni speranza. Consegnare il paese a Lollobrigida.»

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