Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare
- Maddalena Pareti
- 21 apr
- Tempo di lettura: 5 min
“Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare”.
Inizia così la celebre canzone Il testamento di Tito, uno dei brani più intensi del concept album La buona novella del noto cantautore genovese Fabrizio De André, pubblicato nel 1970. L’album rilegge la vita di Cristo attraverso lo sguardo di personaggi che lo hanno accompagnato, come Maria, Giuseppe, Tito o le madri di Tito e Dimaco sotto la croce, lasciando che la loro umanità sia il cuore dell’operazione poetica. Accompagnato da musicisti d’eccezione, tra cui membri del gruppo Quelli – che avrebbero poi dato vita alla Premiata Forneria Marconi –, De André crea un’opera che considera tra le sue più riuscite.
Il cantautore lavorò all’album in pieno Sessantotto, lasciandosi trasportare dalla carica rivoluzionaria di quel periodo. L’intento era comunicare ai giovani in lotta che le loro battaglie erano già state combattute da colui che definì “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”, ossia Gesù di Nazareth.
Nell’album, i protagonisti sono carichi di una forte umanità per scelta dell’autore, e la figura di Gesù Cristo, centrale in tutti i Vangeli, è raccontata nei momenti della nascita e della Passione, tralasciando l’infanzia, le predicazioni e i miracoli.
In La buona novella, Cristo è una presenza silenziosa, mai narrata direttamente ma percepibile in ogni canzone. La sua storia emerge attraverso i racconti di chi lo circonda, dalla nascita alla Passione, con un’attenzione particolare all’umanità di figure come Tito – uno dei due ladroni crocifissi accanto a Gesù –, che, dalla croce, in punto di morte, sfida i Dieci Comandamenti con un monologo carico di sarcasmo e redenzione, proponendo dei “controcomandamenti” – come li definisce Walter Pistarini in Il libro del mondo - considerati dal poeta meno ipocriti di quelli consegnati da Dio a Mosè sul monte Sinai.
Primo Comandamento: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù… Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”.
Genti diverse venute dall’est
dicevan che in fondo era uguale.
Credevano ad un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
Il primo Comandamento è legato al periodo storico in cui fu scritto, quando la fede monoteista si confrontava con il politeismo delle civiltà del tempo, come quella egiziana, che aveva sottomesso il popolo ebraico in schiavitù. Tito, che a differenza di Mosè vive sotto l’occupazione dell’Impero romano, sostiene che il diverso nome di Dio non debba essere un pretesto per esercitare violenza tra gli uomini.
Secondo Comandamento: “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano”.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome
ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore.
Il ladrone si lamenta dell’inutilità di invocare Dio, spesso assente nelle dinamiche del mondo, ironizzando sul fatto che una divinità possa essere troppo affaticata o impegnata per soccorrere i suoi figli in una situazione disperata.
Terzo Comandamento: “Ricordati di santificare le feste”.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitano salmi
di schiavi e dei loro padroni.
Il “controcomandamento” allude ai salmi recitati dalle autorità religiose come una prassi formale, che coinvolge solo schiavi e padroni, i pochi figli tutelati da Dio nel tempio, secondo Tito, escludendo i marginali come i ladroni, di cui si fa portavoce. Per chi non rientra tra i “figli di Dio” non esiste riposo, concesso solo a chi si conforma alle norme sociali.
Quarto Comandamento: “Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio”.
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone.
Il Comandamento è legato al tempo in cui fu scritto, quando la figura paterna aveva la potestà sul nucleo familiare, all’interno del quale si consumavano spesso violenze di ogni tipo. Tito mette in discussione l’onore incondizionato verso l’autorità genitoriale, che può offrire tanto una carezza quanto uno schiaffo.
Quinto Comandamento: “Non uccidere”.
Guardatela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno.
Tito invita a riflettere sul paradosso della mancata osservanza del Comandamento. La sua morte, insieme a quella di Dimaco – il terzo uomo crocifisso – e di Gesù, evidenzia la contraddizione di chi interpreta le tavole divine infrangendole per mantenere una giustizia mortale. La violazione di una proibizione così semplice mette in discussione la capacità umana di interpretare coerentemente le leggi di Dio.
Sesto Comandamento: “Non commettere atti impuri”.
Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
...
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
e tanti ne uccide la fame.
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore
ma non ho creato dolore.
Il ladrone pone un interrogativo sulla repressione della sessualità, ridotta a una funzione meramente procreativa, che equipara l’amore a un atto carnale. Denuncia la superficialità con cui si genera un erede, non come frutto dell’amore, ma di una voglia che, una volta svanita, abbandona il figlio alla fame, togliendo la vita con la stessa facilità con cui la si dà.
Settimo Comandamento: “Non rubare”.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
Tito si discolpa, sostenendo che i suoi furti avevano come unico fine il sostentamento, assumendosi la responsabilità delle azioni che gli costano la vita sulla croce. “Quegli altri” – probabilmente i potenti – usano Dio per giustificare le loro razzie, senza subirne le conseguenze. Dio diventa un espediente per violare la stessa legge da lui promulgata.
Ottavo Comandamento: “Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo”.
Non dire falsa testimonianza
e aiutali ad uccidere un uomo.
Il “controcomandamento” condanna la complicità della massa, alleata dei potenti, nell’uccidere chi non si conforma alle regole, creando confusione poiché il diritto divino è infranto per applicare la legge della vendetta. Tito ricorda che il perdono, mezzo di redenzione, è dimenticato da chi si proclama fedele.
Nono Comandamento: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo”.
Decimo Comandamento: “Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo”.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa.
L’invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.
Il ladrone prosegue nel suo intento eretico di svelare le contraddizioni dell’animo umano, mostrando a chi lo punisce di essere il primo colpevole delle leggi su cui si basa la sua condanna a morte. L’insoddisfazione genera un’invidia per ciò che appartiene ad altri, che sia una donna, uno schiavo o un animale. Sebbene nessuno di questi debba essere considerato un oggetto di possesso, l’uomo invidioso non smette di desiderare ciò che vede nell’altro, incapace di colmare la mancanza che risiede in sé.
Tito, nel brano, diventa un giudice della legge divina più efficace di chi ha emanato la sua sentenza di condanna, dimostrando che per seguire la legge di Dio non è necessario un ruolo di potere, ma basta osservare le vicende umane con disincanto. Solo chi perde Dio – come un ladrone – può ritrovarlo e interpretarne le regole.
Io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore.
Ricongiungendosi a Dio, Tito riesce a provare dolore nel vedere Cristo morire, perché, libero dall’ipocrisia del diritto mortale, comprende l’essenza del diritto divino: i sentimenti umani. Osservando Gesù che perdona i suoi assassini, capisce che la pietà è più forte della legge terrena, fallibile e ipocrita, come analizza nella canzone. In punto di morte, sfida i suoi giudici corrotti abbracciando il “controcomandamento” più potente: l’amore.