C’è nella rabbia dei popoli una radice antica, che dirama nell’aria come nella terra, negli occhi come nelle vene. Nelle opere più che altrove, nei fabbricati resta, resta nei cortili e negli arativi.
Anche Carlo Levi, appena arrivato nel paese che accoglierà il suo confino, in provincia di Matera, è come contrariato dall’aspetto sparso e quasi accogliente di ‘Gagliano’ rispetto agli altri omologhi lucani, nel complesso più severi e terribili. “Ero avvezzo ormai alla società nuda e drammatica di Grassano, ai suoi intonaci di calce cadente, al suo triste raccoglimento misterioso; e mi pareva che quell’aria di campagna con cui appariva Gagliano, suonasse falsa in questa terra che non è, mai, campagna”, scrive l’intellettuale torinese in Cristo si è fermato a Eboli. Bisognerebbe chiedergli cosa sia mai quella campagna che, tra selle balze e burroni punte aguzze e cime erose, è intanto la protagonista di un altro romanzo, parimenti molto apprezzato, in cui dalla Campania alla Sicilia, dalla Rivoluzione francese all’Unità di Italia, il filo conduttore sembra essere uno, ancorché tra tanti: la riforma agraria e la distribuzione delle terre ai contadini.
Carlo Levi (nell'ultima immagine - di Paolo Monti , CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons - collection: Biblioteca Europea di Informazione e Cultura - Milano), autore delle opere - Lucania 61 (painting) - Museo Nazionale d'Arte Medievale e Moderna della Basilicata, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons.
Il titolo è I fuochi del Basento, l’autore Raffaele Nigro, premio Napoli e Super Campiello nel 1987: la trama è corale perché in realtà investe tutto il Paese, attraverso le vicende dei Nigro per l’appunto, che non sono i familiari dell’autore, ma per antonomasia lo sono anche di tutti noi, figli di quelle battaglie, piaccia oppure no. I Nigro sono braccianti di S. Nicola, masseria lungo le rive dell’Ofanto, nella zona del Vulture, che parlano con i morti, abbracciano le armi e sempre fanno miracoli. E questo perché a certe latitudini e a determinate condizioni un miracolo è un accadimento semplice, come saper comporre versi senza sapere leggere e scrivere o da povero avere un figlio che ‘sa di carte’, scampare alla forca grazie al ritorno improvviso del ‘tuo’ Re, scacciare in malo modo il fratello morto che ti chiede redenzione, o semplicemente avere le stimmate sulle mani e fondare un ospizio per poveri, come accadrà a Raffaele Arcangelo Nigro, antenato del Santo che proprio in queste zone fondò la sua parabola.
La storia inizia con il capostipite, Francesco, innamorato di Concetta Libera, stimato dai nobili illuminati che allieta con le sue poesie, ma costretto a darsi alla macchia suo malgrado; si conclude con il nipote, Vitodonato, quello che ha studiato e che si pone al seguito di Garibaldi contro i Borbone, e il figlio Carlantonio, al seguito invece di Carmine Crocco contro garibaldini e piemontesi – perché la guerra dei poveri è facile che diventi anche fratricida se non si fa attenzione. In mezzo ci sono i Sanfedisti, il terremoto di Melfi del 1857, le epidemie di colera e una “ruota che, azionata da una manovella, lanciava un filo sottile di fuoco, bianco, scoppiettante”. La terra? Da queste parti all’indomani dell’Unità d’Italia hanno dovuto aspettare quasi un secolo per vedere attuata quella riforma agraria tanto agognata e ormai insanguinata, ma della quale appare subito chiaro che non si potesse parlare neanche agli amici di Garibaldi.
Ma questa è Storia Contemporanea nota ai più, no? Eppure a rendere unica la narrazione dei fatti nel romanzo di Nigro è proprio l’incredulità della Storia quando a narrarla sono le vite dei suoi protagonisti e non i grandi discorsi, mancando quasi del tutto finanche le trasposizioni metaforiche: essa allora si fa violenza, miseria, bestialità, morte, beffa e sopruso e la passione dell’autore per i nomi, i toponimi e i titoli, al di là delle ricerche bibliografiche e d’archivio puntuali e efficaci, sa di ‘rifondazione’ e quasi di impulso all’‘autodeterminazione’ del contesto tutto, arbusti compresi e paesaggi e fiumi e proverbi ed espressioni dialettali e anime dei morti, santi, briganti e animali.
Il clangore delle armi è ovunque, nella foresta Grancia come nel limare delle cicale, che Basento Basento, accompagna come una melodia i crepuscoli e le ore più afose di ansia e di sonno. Si ha quasi l’impressione, a un certo punto della storia, che le rivolte contadine tra eserciti francesi, spagnoli, piemontesi e pontifici ne escano un po’ avvilite, come improvvisate, sempre gratuite quando non sono percepite addentro ai grandi discorsi che sostengono gli ideali che muovono quelli che hanno studiato, come i Galiani, i Bindi o don Giovanni Andrea Serrao, del quale Nigro ci regala una descrizione che rende omaggio alle idee repubblicane e democratiche del vescovo di Potenza, martire della Rivoluzione Partenopea del 1799.
Ma la rivolta contadina è una e sempre quella: le masse volevano vedere solo migliorata la propria condizione e per questo di volta in volta si appellavano alla coerenza, sia stata essa ‘lume della ragione’ di un prete, di un nobile, di un santo o di un brigante. È la storia del Sud affamato di terra mai addomesticata, che arricchisce i padroni e restituisce ai braccianti il conforto dei morti e il riparo dai debiti. Una terra che non si è mai fatta campagna, ma sempre terreno di conquista, per una strada ferrata, per una pala eolica o per una riforma andata male, della quale i borghi e le case coloniche ancora puntellano il paesaggio come mani aperte a chiedere venia.
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