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Kashmir, la chiave di volta per la stabilità del subcontinente indiano

Lunga la storia, come tutte, che ha portato India e Pakistan a disputarsi i territori del Kashmir. In realtà risale a prima della dichiarazione di indipendenza dei due stati il 14 agosto del 1947. Senza ripercorrerne tutte le tappe, che ci vorrebbe una trattazione estremamente lunga, ci sono alcuni aspetti e vicende apparentemente secondari, che hanno inciso molto sull’evoluzione delle relazioni tempestose tra i due stati del subcontinente indiano.

 

Nel processo di spartizione dei territori tra India e Pakistan il criterio per l’assegnazione ad uno stato piuttosto che a un altro fu basato sulla prevalenza in ciascuna area geografica del subcontinente della confessione religiosa indù o mussulmana. Le aree a maggioranza indù sarebbero andate all’India, quelle a maggioranza mussulmana al Pakistan.

 

Nella maggior parte del subcontinente era abbastanza facile destinare i territori a uno degli stati, ma in alcune aree l’intreccio e la convivenza, mai completamente pacifica, delle due confessioni religiose principali (ma nel subcontinente indiano se ne dovrebbero aggiungere molte altre minoritarie) rendeva tutto particolarmente complicato, come nel Punjab e nel Bengala, due delle regioni più importanti del dominio coloniale inglese. Per fare un esempio, Lahore, la più grande città del Punjab, era divisa tra seicentomila mussulmani, cinquecentomila indù e centomila silkh. La spartizione del territorio indiano su base religiosa provocò l’esodo di milioni di persone che in molti casi furono costrette ad abbandonare le loro case per emigrare nello stato che li avrebbe accolti solo per la loro religione. Non fu un esodo indolore, soprattutto nel Punjab e nel Bengala provocò la morte, a seguito di violenti scontri interetnici e interreligiosi, anche tra le carovane di profughi che si incrociavano, di un numero di persone imprecisato che si stima intorno al milione.

 

Non tutto il territorio era amministrato direttamente dagli inglesi. Alcuni territori erano stati lasciati a principati locali (i Maharaja, Nawab o Nizam) e godevano di ampia autonomia. Portati alle trattative dal viceré delle Indie Lord Mountbatten (lo zio dell’attuale Re d’Inghilterra), questi capi di stato locali, sottoposti a notevoli pressioni, scelsero, o ne furono costretti, di aderire all’India o al Pakistan. Non tutti i principi presero una decisione prima della dichiarazione di indipendenza del 14 agosto. Uno degli indecisi (ma in cuor suo aspirava all’indipendenza senza mai aver avuto il coraggio di sostenerlo apertamente nella trattativa con il viceré) era il capo di uno stato chiave nello scacchiere indiano. Stiamo parlando di Hari Singh, Maharaja del principato himalayano del Kashmir.

 

Questo atteggiamento attendista Hari Singh lo pagò caro, ma soprattutto lo pagarono caro, e continuano a subirne le conseguenze tuttora, i cittadini del Kashmir.

 

Poche settimane dopo la dichiarazione d’indipendenza dei due stati, i pakistani organizzarono in gran segreto un’invasione non ufficiale del principato himalayano. Uso il termine non ufficiale, perché furono reclutate milizie mercenarie pashtun dall’Afghanistan, note per la loro capacità belliche e per la loro ferocia, ma anche per una scarsa propensione alla disciplina. L’esercito pakistano regolare sarebbe intervenuto in un secondo momento.

 

L’attacco avvenne in piena notte, cercando di sfruttare l’effetto sorpresa. Ma chi l’aveva ideato e pianificato non sapeva che avrebbe fatto i conti con un paio di determinanti imprevisti. Il primo, una soffiata tra due ufficiali britannici di stanza nei rispettivi eserciti indiano e pakistano, frutto della spartizione dell’esercito coloniale inglese in quello dei due nuovi stati indipendenti. Il segreto durò poco e la notizia arrivò ai vertici dell’esercito indiano e al principe Hari Singh che per poter salvarsi dall’invasione chiese aiuto all’esercito indiano, dovendo però aderire ufficialmente all’India.

 

Il secondo imprevisto dipese dalla scarsa propensione alla disciplina delle milizie pashtun che, invece di puntare dritte alla capitale del Kashmir Srinagar, si persero a saccheggiare i villaggi che incontravano lungo la strada. L’esercito indiano riuscì a mettere in sicurezza la capitale con un lancio di truppe aviotrasportate e a fermare l’invasione più o meno all’altezza dell’attuale linea di cessate il fuoco. L’incursione dei mercenari pashtun fu successivamente appoggiata dall’esercito regolare pakistano dando vita alla prima guerra indopakistana, che si concluse senza grandi spostamenti della linea del fronte.

 

Andrebbero aggiunte alcune informazioni importanti. La rapida trattativa tra Hari Singh e le autorità indiane, mediata dall’ex viceré Lord Mountbatten (che era intanto diventato Governatore Generale del dominion dell’India, carica che ricoprì per pochi mesi), per aderire all’Unione Indiana e fermare l’invasione, prevedeva come condizione che il popolo kashmiro si sarebbe pronunciato successivamente con un referendum per decidere liberamente l’adesione a uno dei due stati del subcontinente. Questa condizione, non fu mai rispettata dall’India, nonostante le rassicurazioni e le promesse del Primo Ministro Jawaralal Nehru, che era originario proprio del Kashmir. Il legame affettivo di appartenenza alla propria terra natale fu un fattore di natura emotiva che forse pesò non poco sulla risoluzione della controversia.

 

La situazione è rimasta sostanzialmente congelata anche nelle successive guerre e scaramucce tra India e Pakistan. Nessuno dei due paesi è disposto a cedere sulla sovranità della regione. A questo si aggiungono le aspirazioni indipendentiste di una parte importante dei kashmiri mussulmani, probabilmente incoraggiati in maniera strumentale dai politici pakistani.

 

Non aiuta certo la distensione e la pace la salita al potere di Narendra Modi, esponente di un partito nazionalista e fondamentalista indù erede dell’ala politica dell’organizzazione terroristica che organizzò l’omicidio del Mahatma Gandhi del 30 gennaio 1948. Tra le sue discutibili iniziative politiche, la revoca dello statuto di autonomia che vigeva in Kashmir, un atto politico che sicuramente non ha favorito la distensione e che anzi, sta portando gli eventi a una pericolosa escalation tra due nazioni dotate di armi nucleari.

 

Considerazioni finali. In questa vicenda si intrecciano una miriade di fattori etnici e religiosi e anche geopolitici. Chiunque, osservando la posizione del Kashmir nella carta geografica, così al centro dell’Asia e confinante con la Cina, è in grado di comprendere perché nessuno dei due stati rinuncerà volentieri a rivendicarne la sovranità. Difficile anche affermare il principio di autodeterminazione dei popoli, per quanto auspicabile. Esso porterebbe all’indipendenza un piccolo stato circondato da vicini molto più potenti e desiderosi di includerlo nella loro sovranità.

 

Personalmente non so neanche se il ricorso a questo principio sia auspicabile nell’inestricabile dedalo indiano. La disintegrazione di entità politiche soprannazionali, per di più condita da fanatismo religioso, non ha mai portato a nulla di buono. Poi, creare un piccolo stato indipendente sulla carta, ma assolutamente dipendente da ingombranti vicini, non so se sia una soluzione. Una vera autodeterminazione è possibile solo in un contesto in cui siamo garantite una vera democrazia e libertà anche a tutte le minoranze, oltre a un minimo di autonomia economica. Mi piace ancora immaginare come possibile il sogno originario di Gandhi di una grande India unita (nel senso dell’intero subcontinente indiano) come patria che accoglie con amore tutti i suoi figli, indipendentemente dal loro credo religioso.

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Jawaharlal_Nehru_with_Mahatma_Gandhi.jpg
Jawaharlal Nehru with Mahatma Gandhi

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