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Il senso della vita: Leopardi e il Cantico del gallo silvestre

Sin da piccolo ho avuto molti pensieri riguardo al senso della vita e una domanda, da sempre, ha accomunato tutte le mie riflessioni sul tema: Perché viviamo se tutto ciò che è poi non sarà più, soprattutto noi che abbiamo coscienza di essere solo per un tempo infinitamente piccolo? La nostra esistenza, in fondo, è riassumibile nel trattino che divide la data di nascita con quella di morte, per la maggior parte del tempo noi siamo la negazione della nostra esistenza. E allora perché esistiamo se per la maggior parte del tempo siamo nulla?

Edvard Munch  (1863–1944) - The Angel of Death (1893)
Edvard Munch  (1863–1944) - The Angel of Death (1893)

Non avrò la presunzione di rispondere a un quesito così complesso, in modo che sia riconosciuta come universalmente valida, anche perché ognuno trova rifugio in ciò che crede e la credenza non è mai sinonimo di verità oggettiva. Ed è qui che, infatti, molti trovano ristoro nella religione cristiana, in cui il tempo terreno è la preparazione di ciò che diverremo nel Regno dei Cieli, dando dunque all’esistenza umana un’importanza cruciale per ciò che avverrà; altri credi religiosi o movimenti spirituali credono, invece, nella reincarnazione e, pertanto, la loro esistenza presente assume un’importanza cruciale per ciò che potrà essere nella prossima vita. E poi ci sono io che sono molto scettico sull’esistenza post-mortem di vita reincarnata o paradisiaca. Qual è, allora, il senso della vita di chi, tra poco meno di un secolo, ha la certezza di non esistere più?

 

In questo sentiero di riflessioni complesso ho sempre avuto un amico filosofo, molto sottovalutato e spesso etichettato come «pessimista cosmico»: Giacomo Leopardi.

 

Nelle Operette Morali scrive Il Cantico del gallo silvestre nel 1824 a Recanati. È suddiviso in due parti in cui nella prima spiega che quanto scritto è un riadattamento in prosa di un cantico composto in lingua orientale. Nel suo pessimismo, Leopardi è annoverato tra i pensatori contemporanei come colui che riconosce il divenire delle cose come un loro provenire dal nulla e che esso implica la necessità della negazione di un fondamento, ovvero di una dimensione originaria ed eterna delle cose stesse. Non è possibile neanche prevedere questo divenire, in quanto chi ha la pretesa di monitorarlo scientificamente è, per Leopardi, un illuso.

 

Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.

Diego Baglieri, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Diego Baglieri, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Dopo il proemio, il Gallo silvestre canta le sue prime parole: «Su, morali, destatevi», non siate illusi dalla vita. Leopardi, nell’immagine del perpetuarsi dell’alba che volge al tramonto, alla sua fine («Il dì rinasce») vuole svegliare dal sonno gli esseri umani nella consapevolezza e, dunque, nella disillusione, poiché la vita è simile alla morte, che è eterna.

 

Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. […] Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono.

 

Svegliarsi, però, è difficile in quanto porta inevitabilmente all’infelicità. Riconoscere che «l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obietto il morire», non può condurre l’uomo alla felicità. Parrebbe più utile per gli uomini prolungare il sonno, per non vivere la contraddizione tra l’essere delle cose (il morire, l’infelicità) e il desiderio dell’uomo che, invece, va verso la felicità. L’uomo inevitabilmente prova a risolvere questo conflitto, sottraendosi al dolore con ingegno nella speranza di risolvere la negatività della vita. «In qualunque genere di creature mortali» in fondo, afferma Leopardi, «la massima parte del vivere è un appassire». Non è una esclusività del genere umano, anzi, anche l’universo condivide la croce dell’invecchiamento. Infatti, anch’egli sarà destinato a morire e sarà caratterizzato da un silenzio nudo e una quiete che calmeranno lo spazio immenso: anche il più grande degli imperi sarà destinato a sparire, come noi esseri umani.

 

Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno riacquistano alcuna parte di giovinezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta.

 

Allora qual è il senso della vita se siamo solo una parentesi di esistere in mezzo all’infinità del tempo in cui siamo morti? Se la vita è, in fondo, solo una parentesi positiva della morte, quale senso dargli? Affrontare l’inevitabile caratteristica dell’infelicità, creando il danno del risveglio, e vivendo nel pieno delle nostre capacità umane: questo è ciò che possiamo fare. Perciò, «su, mortali, destatevi!».

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