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Fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ‘l primo amore

Fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ‘l primo amore

 

Con queste parole Dante Alighieri compone una fantasiosa “descrizione di sé stessa” che la porta dell’Inferno, luogo (a ben vedere) temibile per eccellenza nell’immaginario comune, reca scritta sulla propria sommità.

 

Il viaggio di Dante-personaggio, le cui ragioni ho esposto in una riflessione precedente, deve compiersi innanzitutto con l’attraversamento del regno dell’oltretomba riservato a coloro che hanno rifiutato Dio, il suo amore e la sua salvezza e con la meditazione, offerta sia a noi che ai contemporanei dell’autore, di cosa significhi questo rifiuto. Per me si va nella città dolente;/ per me si va nell’etterno dolore; / per me si va tra la perduta gente. PER me, nel senso latino, significa appunto “attraverso di me”.

 

Subito dopo, la scritta che Dante legge sulla porta afferma che Colui che la fece (il mio Alto fattore) ossia Dio fu mosso da giustizia nel crearla (e di conseguenza nel creare l’Inferno stesso, per sineddoche). Un’interpretazione molto superficiale di queste parole farebbe pensare che il Dio cristiano di Dante sia paragonabile ad un giudice che crea l’inferno per punirvi coloro che si ribellano a Lui. Per capire invece cosa ne pensa Dante, bisognerebbe quanto meno soffermarsi sui due versi immediatamente successivi, che ho scelto come titolo di questo commento al canto terzo della Commedia: Dio, nel creare l’Inferno, non solo dimostra la sua onnipotenza (divina podestate), ma anche la sua somma sapienza e il suo essere addirittura amore.

 

Per intendere dunque rettamente il senso della parola giustizia in questi versi, occorre metterlo in relazione con il mistero della Trinità e con i tre significati cui accennavo, ma anche con quanto accade in questo primo episodio vero e proprio dell’Inferno: qui infatti Dante incontra per la prima volta le anime dei dannati, in particolare un gruppo di quelli che comunemente sono definiti “gli ignavi” ed un gruppo anonimo di spiriti appena giunti nell’Inferno (dunque morti da poco) che si apprestano ad attraversare il confine “geografico” del fiume Acheronte.

 

Il primo gruppo sono coloro che visser senza infamia e senza lode, ossia coloro che per estrema vigliaccheria non hanno mai scelto né il bene né il male nella loro vita: Dante li definisce anime tristi e li colloca addirittura prima dell’inizio dell’Inferno, perché indegni di qualunque collocazione, del paradiso come pure dell’inferno, della misericordia così come della giustizia divina. La loro pena, che in realtà è tra le più spregevoli di tutte quelle descritte nella Divina Commedia, consiste nell’inseguire in eterno una bandiera (loro che da vivi non hanno mai voluto prendere le parti di nessuno) e nel non trovare mai pace nel loro corpo, perché nudi e punti in continuazione da mosconi e vespe. Ai loro piedi, un tappeto di vermi beve il sangue che cola dalle loro ferite.

 

Il secondo gruppo di spiriti che Dante incontra in questo canto sono invece coloro che nell’Inferno devono e, pur non volendo, sono paradossalmente solleciti nell’entrarci: accalcati lungo la riva del fiume che separa il regno dei vivi da quello dei morti, essi tremano di spavento e di rabbia (dibattero i denti, bestammiavano Dio e lor parenti) al veder venire verso di loro Caronte, il messo infernale pronto a traghettarli dall’altra parte, eppure sono pronti a trapassar lo rio (sono pronti ad attraversare il fiume) e a salire sulla barca con la stessa prontezza con cui un falco addestrato spicca il volo al richiamo del falconiere (come augel per suo richiamo). 

Paolo Vetri, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Paolo Vetri, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Eccoci alla domanda cruciale: cosa spinge il primo gruppo (i cosiddetti “ignavi”) a mettersi a correre senza sosta dietro un vessillo (agendo contrariamente alla propria attitudine all’inerzia) e il secondo gruppo ad andare incontro alla loro condanna eterna?

 

Andiamo a cercare come al solito la risposta sulla bocca di Virgilio: “che la divina giustizia li sprona”.

 

Sembra esserci allora un volto della giustizia che non conoscevamo e che Dante ci presenta in questo brano: l’attributo divino della giustizia sembra esplicarsi attraverso una spinta misteriosa a “compiere ciò che è giusto” che le anime internamente avvertono dopo la morte e di cui non possono fare a meno. Prima, ossia da vivi, avrebbero potuto scegliere il bene e agire rettamente; ora sono semplicemente costretti ad andare incontro a ciò che è giusto (ossia subire la conseguenza delle proprie scelte), solo che tale agire in conformità all'ordine morale è pienamente e disperatamente sterile, infruttuoso sia per la propria vita che per quella degli altri.

 

Lo spazio in cui si esercita questa libertà per noi esseri umani è il tempo della vita terrena: è questo il campo in cui si gioca la nostra partita. Il “compito” (il filosofo Heidegger avrebbe detto “Aufgabe”) che spetta a noi esseri umani è quello della ricerca, della scoperta e della creazione di un significato del vivere per poter essere degnamente definiti tali, non semplicemente organismi tenuti biologicamente in vita. Non scendere in campo nella vita, accettando i rischi e le conseguenze delle proprie scelte (Dante pagò con l'esilio a vita la coerenza con i propri valori) non accettare questo compito significa aver già perso (degli ignavi, Dante dice che “mai fuor vivi”, cioè non furono mai vivi veramente).

 

Se per gli ignavi questo concetto è facilmente comprensibile e condivisibile, più complessa diventa la corretta comprensione del motivo per cui il secondo gruppo, quello genericamente definito dei “dannati”, sia costretto a restare cristallizzato per sempre in quella che invece è stata una scelta (la scelta del male) compiuta nel tempo limitato della propria esistenza.

 

Sono stati certamente scritti fiumi di libri sull'argomento: si può definire giusto legare per sempre gli uomini ad una scelta sbagliata, compiuta magari nell'ignoranza del momento, di un'evoluzione non ancora compiuta del percorso di ricerca e assunzione del senso autentico della vita (che Dante e tutta la teologia cristiana identifica nella scelta del Bene)?

 

Ponendoci nella prospettiva del Dante-cristiano, dovremmo considerare adeguatamente lungo per ciascun dannato il tempo di vita che è stato concesso dalla Sapienza divina per poter maturare una scelta esistenziale pienamente libera, da considerare definitiva per il carattere radicale con cui è stata abbracciata.

 

“Peccato”, in tal senso, non significa semplicemente infrazione di una regola, ritenuta meritevole di una punizione, ma condizione radicale dell'uomo che ha liberamente scelto di rifiutare Dio, di escludere il prossimo, di abbarbicarsi nel proprio egoismo. Con tutte le conseguenze che ciò comporta. In tutte le sfumature che poi Dante stesso illustrerà nei vari Cerchi infernali. Il termine greco usato nei Vangeli per indicare il peccato è infatti “hamartìa”, che significa letteralmente “mancare il bersaglio”, cioè scendere in campo e giocare la partita sbagliata, abbagliati dalla falsa idea che la libertà sia un dono ricevuto per essere speso secondo il proprio egoismo e il proprio capriccio, slegandola volontariamente dall’appello dell’altro, dalle istanze di giustizia, misericordia e pietà che pure impegnano, che restituiscono al vivere il suo compito, il suo vero senso, il suo vertice di bellezza.

 

Tutto ciò è il ben dell’intelletto, il dono che la divina podestate, la somma sapienza e il primo amore hanno messo precipuamente nelle mani degli uomini e che invece gli sciagurati abitatori dell’Inferno hanno perduto. Per sempre.

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