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Elogio della memoria

Nell’andare consumando la vita, ognuno si persuade di farne quel che può: sebbene, i più pare recitino una parte, alla buona e meglio, sintetizzando impropriamente Pirandello. Conserva il diritto di apportare modifiche al copione solo chi sa farsi custode della memoria del mondo: quel fitto bosco di sacre corrispondenze, tra sentieri labirintici, sepolti e solinghi, di cui si può diventare assidui esploratori.

Image by NoName_13 from Pixabay

Esistere e vivere non sono sinonimi: la memoria ne rivela la profonda distinzione. Abitare la vita e il Pianeta non può slegarsi dal ricordare: che verbo magnifico. L’etimo lascia intendere che siamo “strumenti a corde”, ognuno maestro di melodie segrete: la risultante armonia di mente e cuore. Forse l’infinito che ci abita, ci spinge ad esplorare lo Spazio per dimenticare le macerie del reale e le oscure insidie del virtuale.


Vagabondi, tra le stelle e le stalle, tra guerre e fragili tregue, andiamo coltivando la memoria di ciò che siamo, per scongiurare il peggio di cui sappiamo di essere capaci: una pratica, questa, ancora troppo poco esperita.


Vivere, resistere, restare e curare la memoria collettiva dei “viventi”, tenendo in considerazione quanto sia importante avere coscienza della temporalità dell’esserci, di cui si alimenta la Storia: una storia fatta di interconnessioni e fittissimi richiami interni, quella storia che per l’uomo ha sempre avuto a che fare con il sangue, elemento simbolico e reale, fortemente riassuntivo.


Far tacere il frastuono esterno, per praticare l’arte della rimembranza. Ricordarsi del faticoso e vitale lavoro del Cuore: sistole e diastole all’opera (altrimenti siamo fritti) e delle sinapsi cerebrali e delle tante funzioni organiche che ci tengono in vita. Ricordarsi, ad esempio, delle mani, delle gambe e dei piedi (memoria tattile): ossa, tendini e muscoli irrorati dal circuito cardiovascolare, immettiamo ossigeno ed espelliamo anidride carbonica. Ricordarsi del Sole, della Terra, del Cielo, dell’Oceano. Ricordarsi degli animali, non per farne banchetto. Ricordarsi dell’Aria, riconoscere il valore del respiro e del compito che i nostri polmoni svolgono da quel primo bruciante respiro, seguito dal ruvido pianto neonatale.


La routine delle routine, che si attua di default e si sottrae alla vista (memoria visiva), il più gettonato dei sensi. Spesso ci scordiamo del sordo spettacolo dell’esistente, perpetrato grazie a molteplici memorie in azione sinergica e costante.


Prima così simili a gatti, poi, sempre meno mobili, e più simili a vegetali, sembriamo “naturalmente” tendere verso la luce. La ricerchiamo, come le piante nella loro intelligente silenziosa coesistenza. Eppure, alcuni umani preferiscono le tenebre, come sosteneva S. Giovanni. Siamo ginestre, che vanno profumando i deserti. E siamo anche il deserto incarnato, il morbo appestante di un Pianeta al collasso, ma di questo dato di fatto, ormai evidente, quanti hanno viva memoria?


Se esistesse un modo per “ri-conoscere” l’arcana uguaglianza del battito del cuore umano; se si potessero ascoltare simultaneamente tutti i respiri che l’Umanità compie in un solo singolo secondo sul pianeta, per riscoprirsi tutti così incredibilmente simili, congiunti dal meccanismo che ci accomuna e ci fa figli della stessa specie, tenendo a mente anche l’unicità che siamo chiamati ad essere, forse finalmente si ricondurrebbe il destino dei terresti all’univocità, e chissà che ne sarebbe a quel punto del male e del dolore consapevolmente inflitti all’altr*?

Image by Gerd Altmann from Pixabay

Che ne sarebbe del mondo, se si obliassero l’odio, la violenza, l’indifferenza, il disprezzo, la superbia, la segregazione, la sottomissione, l’emarginazione, l’intolleranza, il rifiuto, la cattiveria, l’invidia (e aggiungete pure liberamente ciò che vorreste sparisse dalla memoria umana) e si ricordasse, altresì, ogni momento, l’evidente finitudine che ci caratterizza. Se si tornasse a contemplare il senso unico del tempo e l’ineluttabilità della morte, magari facendosi aiutare dallo stesso saggio sguardo della grecità classica. Se Filosofia e Poesia, così profondamente sorelle di Matematica e Scienza, tornassero ad insegnare l’immensa beatitudine del Presente. Se tornassimo a considerarle i fondamentali dell’Umanità?


Coriandoli di memoria assuefatta al brutto e all’orrore delle violenze perpetrate: dal particolare al generale e viceversa. Ormai, tutto ridotto all’istante, non sappiamo più cogliere l’eternità, che è propria dell’attimo, in virtù del quale possiamo concepire l’eterno che si fonda sulle esperienze vissute. Esperienze, purtroppo, rese volatili, impermanenti, svuotate di senso e di utilità; un tempo, invece, patrimonio vivo della ricorsività. Questo è il nefasto dono che ci consegna la velocità dell’esistenza attuale: tirannide assoluta della desolante contemporaneità.


Invischiati in un meccanicismo disumanizzante, la memoria è destituita e demandata alle magnifiche banche dati esterne (ed estranee) dei dispositivi mobili, che tanto ingolfiamo di scatti. Continuamente scattiamo foto per testimoniare, raccontare qualcosa a qualcuno che possa “salvarci” dall’oblio al quale sentiamo, forse inconsciamente, d’essere condannati. Ma chi/cosa c’è oltre l’obbiettivo? Una foresta di specchi pronta a restituire il riflesso di un io smemorato, sfuggente, ferito e disorientato, impegnato a perdersi rincorrendo l’Attimo.

Image by Michal Jarmoluk from Pixabay

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