Adolescence: una serie sull’adolescenza che ci parla di adultità
- Linda Bonucci
- 20 giu
- Tempo di lettura: 3 min
Sconvolgente.
La vicenda ruota attorno all’uccisione di una ragazzina, parla di una complessa ricerca dell’identità, di stereotipi di genere, delle insidie della rete; la narrazione è ben costruita.
Ciò che mi ha colpito maggiormente è il mondo adulto attorno al protagonista, il giovane Jamie.
Si tratta di persone anagraficamente “grandi”, ma fragili, incapaci di proporsi come presenze costruttive, in grado di aiutare i ragazzi a dare un nome e un significato alla valanga di emozioni che li travolgono.
Anche se fisicamente presenti, e magari persino amorevoli, non solo non riescono a intercettare, se non genericamente, il disagio dei giovani, ma risultano così insignificanti che i loro figli o studenti preferiscono cercare risposte nella rete piuttosto che rivolgersi a loro.

In particolare, risalta la figura del padre di Jamie, ritratto impietoso di tanti genitori dei nostri tempi (e forse, per certi aspetti, di tutti i tempi). Vorrebbe il figlio simile a sé e, quando il bambino delude le sue aspettative, si gira dall’altra parte, senza farsi carico della frustrazione del piccolo che non riesce, suo malgrado, a essere all’altezza della situazione. Ne ignora i talenti, non si pone al suo fianco alla ricerca di un’identità, difficile da costruire in un mondo complesso come quello in cui viviamo. Pur amando il figlio, pur essendo presente per lui, pur essendo idolatrato da lui, non ne intercetta la disperazione quando la vita sociale del ragazzino si complica. Insomma, c’è, senza esserci davvero: è come se il figlio non fosse un essere umano reale, ma una proiezione della sua mente, tanto che, messo di fronte all’evidenza delle sue azioni, non ci crede.
Eppure è un brav’uomo, come tanti.
La verità è che la genitorialità va sostenuta, ma la società, finché non si arriva al fattaccio, non sostiene né Jamie né la sua famiglia: sono impressionanti le scene ambientate a scuola, dove gli insegnanti sembrano più disorientati dei loro studenti.
I soli adulti che apparentemente sanno che cosa fare sono poliziotti, avvocato, guardie: loro hanno dei protocolli da seguire, delle regole dentro le quali costringere anche gli adolescenti più irrequieti, dispongono anche di discutibili strumenti di coercizione fisica, ma, fuori da carceri e tribunali, i protocolli non esistono, ci sono solo le persone, con i loro ruoli diventati incerti, confusi.
Attenzione, non voglio sostenere necessariamente l’opportunità dei ruoli sociali così come li intendevano i nostri nonni, possono esserci infiniti modi di essere padre o madre o insegnante, ma i ragazzi vanno sempre accompagnati nella crescita e anche protetti, quando necessario. Ecco, questo ruolo adulto, secondo me, va salvaguardato: anche quando, come essere umani, ci sentiamo più vulnerabili e incerti, anche quando i nostri figli o nipoti o studenti ci sembrano più forti o più preparati di noi.
Come adulti, dobbiamo giocare un ruolo di guida, che per me significa mettere la mia esperienza, gli anni che ho vissuto in più di loro, a servizio dei giovani, significa impegnare la testa nelle situazioni che per loro sono difficili, per aiutarli a trovare il bandolo della matassa, a volte significa semplicemente abbracciarli e rassicurarli che, nella vita, c’è un tempo per tutto, per la disperazione come per la consolazione: sembra banale, ma loro non lo sanno, perché sono piccoli, perché vivono buona parte della loro quotidianità in un mondo virtuale, in cui le persone costruiscono immagini perfette di se stesse e, per questo, quando capita qualcosa di brutto, si disperano oltremodo, pensando che il destino si accanisca contro di loro, mentre le vite degli altri sono meravigliose.
Dopo venticinque anni di insegnamento, e ovviamente nei limiti della mia esperienza, mi sento di dire che mai come oggi i giovani sono aperti al dialogo, anche con gli adulti. I miei intervalli a scuola non sono mai solitari: c’è sempre qualche ragazzino che mi si avvicina per uno sfogo, un racconto, un pettegolezzo o perché ha bisogno di un parere su qualcosa, sulla scuola come sugli eventi del sabato sera. Io non mi sottraggo mai, neanche ai dialoghi più scomodi, perché penso che, se quei ragazzi fossero i miei figli, vorrei che l’adulto cui eventualmente si rivolgessero, li ascoltasse e, magari, se del caso, li facesse ragionare.
Per me, è questo che significa essere grandi dentro a una relazione educativa: non necessariamente dare risposte, ma esserci in maniera vigile e costruttiva, tentare di soddisfare il bisogno dei ragazzi di essere riconosciuti e rispettati nella loro individualità, di essere “visti” nella loro unicità.
È un ruolo faticoso, certo, ma non giocarlo significa comportarsi come la psicologa, incaricata della perizia su Jamie in Adolescence: di fronte al ragazzo che finalmente è sincero, lei piange sconvolta, incurante di lui che, mentre le guardie lo portano via, la chiama e le chiede aiuto.
La psicologa ha adempiuto al suo ruolo, tecnicamente risulta ineccepibile, ma essere adulti è qualcosa di più.