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Votare Sì al quinto quesito: per una democrazia più compiuta

Aggiornamento: 2 giorni fa

L’8 e il 9 giugno, l’Italia sarà chiamata a esprimersi su cinque quesiti referendari. Tra questi, il quinto riguarda un tema cruciale per il futuro del Paese: la cittadinanza. La proposta è chiara e semplice: ridurre da dieci a cinque anni il periodo minimo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza italiana.

È una riforma di civiltà, che chiama in causa la nostra capacità di riconoscere ciò che già esiste. Oggi, centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi cresciuti in Italia, spesso nati altrove ma formatisi qui, vivono in un limbo giuridico e simbolico: italiani di fatto, ma non di diritto. La loro esclusione non è solo una questione amministrativa, è una ferita sociale che mina la coesione del nostro tessuto democratico.

 

Ayoub è uno di loro. Nato in Marocco, cresciuto nei borghi italiani, oggi lavora come progettista per Maserati. È parte di quell’eccellenza industriale di cui andiamo fieri, eppure per anni non ha potuto sentirsi riconosciuto. La sua è una storia fatta di attese davanti alla questura, di volti ostili dietro vetri opachi, di una burocrazia che insegna fin da piccoli cosa significhi sentirsi “altro”.

 

“Entrare all’asilo con dieci anni significava sedersi tra bambini piccoli”, scrive Ayoub. “Mentre mi osservavano nella mia diversità, io restavo in silenzio”. Una quotidianità segnata da parole come permesso di soggiorno, rinnovo, questura. Parole che non dovrebbero appartenere all'infanzia. E che invece lasciano tracce profonde.

 

E poi c’è Sara, 29 anni, anche lei nata a Casablanca ma italiana nel cuore, nella testa, nel vissuto. Arrivata a sei anni grazie a un ricongiungimento familiare, ha studiato, lavorato, viaggiato, costruito amicizie e futuro in Italia. Ma ha dovuto attendere più di vent’anni per ottenere la cittadinanza, con tutte le frustrazioni che questo comporta. Ha dovuto rinunciare a esperienze fondamentali come l’Erasmus o la partecipazione a concorsi pubblici.

 

Quando finalmente ha giurato sulla Costituzione, ha pianto. “Un mix di gioia, sollievo, ma anche profonda amarezza”, racconta. “Era ingiusto attendere così tanto”. Oggi, Sara è pronta a votare per la prima volta. E voterà cinque sì, anche per chi ancora non può.

 

Le storie di Ayoub e Sara sono quelle di una generazione che ha già dato molto all’Italia: tempo, energie, talenti. Sono figli di famiglie che hanno lavorato duro, nei campi, nelle fabbriche, nei cantieri, nei servizi. Che hanno costruito, giorno dopo giorno, una nuova identità italiana fatta di pluralità e futuro. Ma questa appartenenza, così evidente nella vita quotidiana, non viene ancora riconosciuta formalmente.

 

Poi ci sono io, arrivata in Italia nel 2007 con un sogno romantico: vedere Venezia. Era un sogno da ragazza, che poi è diventato un nuovo inizio. Qui ho trovato la possibilità di reinventarmi, di costruire una nuova vita. Mi sono sposata, ho avuto due figli nati in Italia. Tre anni fa ho ottenuto la cittadinanza italiana. Un riconoscimento importante, ma che è arrivato dopo un percorso lungo e complicato, in cui ho dovuto dimostrare, documentare, aspettare. Ma quanto c’è da dimostrare per essere considerati parte di questo Paese? Non bastano la quotidianità, il lavoro, i figli nati qui, la lingua parlata ogni giorno, la partecipazione alla vita collettiva, il volontariato?

 

L’attuale legge sulla cittadinanza, ferma al 1992, si basa su un’idea ormai superata: che essere italiani sia solo una questione di sangue. Ignora la realtà sociale, culturale, educativa del Paese. E impone ostacoli sproporzionati: dieci anni di residenza regolare, un reddito stabile, esami di lingua, assenza di precedenti penali. Una corsa a ostacoli che spesso esclude proprio chi è più radicato qui: i giovani.

 

La cittadinanza non è un privilegio da concedere con parsimonia. È un diritto che sancisce l’inclusione piena nella comunità nazionale. È un patto reciproco tra Stato e persona. È lo strumento che permette di partecipare davvero alla vita pubblica, di sentirsi parte di un “noi” comune.

 

Negarla significa tenere fuori migliaia di giovani dai processi democratici, culturali, sociali. Significa alimentare una frattura, un senso di estraneità, un potenziale rancore. Come racconta Ayoub, “non c’è problema più grande dell’estremizzazione sociale e politica, alimentata da esclusione e classificazione continue”. Riconoscere, includere, dare cittadinanza è il primo passo per spezzare questo circolo vizioso.

 

Sara lo dice con chiarezza: “Noi, nuove generazioni arricchite da un mix di culture, rappresentiamo un valore aggiunto inestimabile per la Nazione”. È vero. La diversità culturale è una ricchezza, non una minaccia. Le seconde generazioni sono spesso bilingue, abituate a muoversi tra codici culturali differenti, con una sensibilità aperta e globale. Hanno tutto per essere ponti, e non barriere.


Ma hanno bisogno di strumenti. Il primo di questi è il riconoscimento. Dire sì alla riforma significa dire sì a una cittadinanza inclusiva, a una scuola che forma cittadini, non solo studenti, a una società che non ha paura della pluralità, ma la abbraccia come risorsa.

 

Chi ha paura di questa riforma, spesso immagina scenari lontani dalla realtà: invasioni, concessioni facili, derive identitarie. Ma la verità è semplice: la cittadinanza non toglie nulla a nessuno. Al contrario, aggiunge. Aggiunge partecipazione, appartenenza, responsabilità. Permette a tanti ragazzi e ragazze di sentirsi finalmente riconosciuti, di non vivere più nell’incertezza burocratica o nell’umiliazione di dover “dimostrare” continuamente chi sono.

 

Il referendum dell’8 e 9 giugno non riguarda solo i diretti interessati. Riguarda il Paese che vogliamo essere. Possiamo continuare a costruire muri, oppure scegliere di aprire porte. Possiamo avere paura del futuro, oppure decidere di costruirlo insieme.

 

Votare al quinto quesito significa fare un passo verso una democrazia più compiuta. Significa ascoltare le voci di chi è già italiano nella vita, nella lingua, nelle relazioni. Significa riconoscere che l’Italia, quella vera, è già cambiata. E che il compito della politica non è trattenerla nel passato, ma accompagnarla verso un domani più giusto, più coeso, più umano.

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