A ogni anno che passa, certi atteggiamenti dei miei studenti mi mettono sempre più a disagio: dall’abbigliamento sempre più succinto delle ragazze (i ragazzi, per la mia esperienza, rispettano, generalmente, il dress code scolastico) al libero uso delle parolacce, anche quando l’interlocutore è un docente, passando attraverso la crescente incapacità di controllare i propri bisogni primari, per esempio mangiando e bevendo durante le lezioni, lungo tutto l’arco della mattinata. Ho deciso di affrontare la questione proponendo alla mia seconda (superiore) la lettura del galateo. Naturalmente, ho scelto un galateo moderno, il Galateo per teenager, una pubblicazione di Shubha Marta Rabolli, che ha il pregio di voler chiarire come conoscere le buone maniere ci permette di contribuire al miglioramento delle nostre relazioni interpersonali, di creare degli ambienti più inclusivi… di sviluppare una sensibilità che migliora il nostro stare insieme e che, soprattutto, ci rende responsabili delle nostre azioni nei confronti degli altri, aiutandoci a non lasciare nessuno indietro.
Inaspettatamente, la mia proposta è stata un successo. Abbiamo avuto molto di cui discutere. Il testo tocca infatti una serie di argomenti, dai più tradizionali ai più moderni: dal galateo a tavola, al galateo sui social, dal dress code, al galateo LGBTQIA+. Non c’è stato bisogno, con loro, di inviti alla tolleranza. Per lo più, normalizzano qualunque modo di essere o scelta personale, prendono gli esseri umani per come sono.
L’argomento che ha generato maggiori discussioni è stato il dress code. Avevo di fronte a un gruppo molto eterogeneo di ragazze, diverse per origini etniche, estrazione sociale e background culturale. Tutte rivendicavano la libertà di esprimere se stesse anche attraverso il vestiario: alcune spogliandosi, altre - in particolare le ragazze di fede islamica - coprendosi e velandosi. Rifiutavano un’omologazione imposta loro dagli adulti.
A un certo punto, ho taciuto. Ho ripensato alla mia mamma, al Sessantotto, alle prime minigonne… forse l’effettiva emancipazione femminile deve passare anche attraverso il vestiario. Forse hanno ragione loro. Mi hanno spiegato che, dopo la lettura del Galateo, trasgrediranno al dress code in modo più consapevole, ma trasgrediranno, perché, innanzitutto, devono piacere a se stesse.
Il libro dedica molte pagine alla conversazione a alla comunicazione, verbale e non, mettendo anche in luce gli atteggiamenti psicologici che sottostanno al nostro modo di interagire con gli altri. Questa parte ha colpito in modo particolare i ragazzi. La società, a vari livelli, insegna loro una comunicazione disfunzionale, per lo più aggressiva, insegna loro a tacere di fronte a chi ha più potere e può nuocere loro. Alcuni studenti sono rimasti colpiti dal fatto che si possano esplicitare le proprie opinioni o necessità senza ostilità, accogliendo le visioni altrui senza scaldarsi, ma discutendo semmai del merito delle stesse. Sull’onda delle indicazioni contenute nel libro, hanno voluto risolvere, proficuamente, un problema interno al gruppo.
Mi ha molto sorpreso il peso che davano alle pagine sulla comunicazione. Negli adolescenti si nota spesso una straordinaria apertura e disponibilità a empatizzare con le persone e, al tempo stesso, la necessità di costituirsi in gruppi che, per affermarsi, hanno bisogno di un nemico, contro cui esprimere una grande, quanto astratta, aggressività verbale.
Così, nei fatti, i ragazzi crescono tutti insieme, con relazioni personali forti e positive, pur nella loro diversità di origini etniche, di estrazione sociale, di vedute, in senso lato, politiche, crescono, in media, sessualmente liberi di essere se stessi e si scandalizzano meno delle generazioni precedenti rispetto a qualunque cosa riguardi il sesso. Eppure si esprimono in modo pesantemente giudicante, generalistico e aggressivo contro una serie di individui, tradizionalmente considerati facili bersagli di battute e insulti insulsi. Lo sanno bene i miei ragazzini di origini africane, che devono trangugiare i pregiudizi e l’arroganza di tanti loro compagni. Si tratta di un retaggio storico duro a morire, così come quello che vede con sospetto la comunità LGBTQIA+ . Lo sanno bene tutti i “diversi”, tutti i “devianti” rispetto all’immagine che la società impone, implicitamente, dei ragazzi, come delle varie categorie che la compongono.
Forse, anche nell’educazione civica, bisogna ripartire proprio dalla comunicazione. Qualche anno fa, un gruppo di professionisti della comunicazione ha stilato un interessante decalogo, il Manifesto della comunicazione non ostile, che contiene indicazioni per uno stile comunicativo corretto e rispettoso, in particolare nella rete. Il terzo punto del decalogo invita a prendersi tutto il tempo necessario a esprimere al meglio quello che si pensa, poiché le parole danno forma al pensiero e raccontano le persone che siamo.
Forse, però, dovremmo puntare anche a invertire il senso di lettura dell’ultima frase: l’abitudine a una comunicazione aderente al pensiero potrebbe a sua volta generare pensieri più gentili e rispettosi. Mi spiego: se riuscissimo a educare a una comunicazione più autentica, piano piano, circolerebbero parole meno tossiche e si diffonderebbe un atteggiamento meno ostile. Il linguaggio deve rispecchiarci, essere allineato con le nostre scelte. Si tratta di chiederci, prima di parlare, se pensiamo davvero ciò che stiamo per dire o se parliamo per una sorta di inerzia socioculturale. Si tratta di ricordare che il rispetto degli altri è alla base del vivere civile, di mettersi nei panni altrui prima di prendere posizione.
Parafrasando Monsignor Della Casa, gentiluomo cinquecentesco, autore del primo Galateo della Storia, siamo animali sociali e piace a tutti incontrare, negli altri, benevolenza e apprezzamento.
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