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Naivete e verità: la lezione nascosta dietro il caso Knox

Il 2 novembre del 2007 ero in Erasmus, a Manchester, nel Regno Unito. I miei genitori avevano già fatto esperienza di avere una figlia che viveva all'estero e non sono mai stati particolarmente ansiosi: chiamavano il giusto, partecipavano alla mia vita senza essere esageratamente paurosi che potesse succedermi qualcosa di tragico. Eppure, quel giorno mi chiamarono entrambi, probabilmente a causa del fatto di cronaca nera che avevano sentito al telegiornale.


Una ragazza inglese era stata ritrovata dalle sue coinquiline in una villa a Perugia. Assassinata. Era in Erasmus anche lei, dall’università di Leeds, nel nord dell’Inghilterra, a circa 50 miglia da dove mi trovavo io.


La coinquilina americana, Amanda Knox, e il suo uscente (uso questa parola proprio perché “fidanzato”, largamente usata in italiano, si traduce letteralmente con fiancé in inglese e non è applicabile alla loro situazione, visto che si erano conosciuti solo pochi giorni prima), Raffaele Sollecito, diventano nel giro di pochi giorni i sospetti principali di un terribile omicidio che aveva scosso il mondo intero. Una vicenda che coinvolgeva persone molto giovani, provenienti da tre Paesi diversi, in una città che non aveva mai fatto esperienza di nulla di simile, e un sistema giudiziario certamente non abituato a dinamiche così internazionali.

Amanda Knox durante un'intervista esclusiva con Simone Baglivo di Sky News a Orvieto, Italia, il 6 giugno 2024 - Philip34457, CC0, via Wikimedia Commons
Amanda Knox durante un'intervista esclusiva con Simone Baglivo di Sky News a Orvieto, Italia, il 6 giugno 2024 - Philip34457, CC0, via Wikimedia Commons

In quel periodo, io e la mia compagna di corso Rebecca avevamo scelto di analizzare e confrontare il registro linguistico dei quotidiani italiani e britannici. La vicenda, quindi, la seguivo. Eppure, a distanza di anni, mi accorgo di aver rimosso molti dettagli. Forse per paura: succedeva “vicino” a me, a ragazze della mia età e la mente tende a proteggersi. Ricordo però con chiarezza come i tabloid inglesi avessero trasformato Amanda Knox in un mostro. La stampa italiana, pur meno sensazionalistica, contribuiva comunque a costruire un’immagine deviante basata soprattutto sui suoi comportamenti giudicati “strani”.


Knox e Sollecito trascorsero quattro anni in carcere, nonostante l’assenza di prove decisive. Si sono sempre proclamati innocenti, denunciando errori e pressioni durante le indagini: aspetti poi riconosciuti anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha risarcito Knox per le irregolarità delle prime interrogazioni.


Quest’estate, la sua versione dei fatti è tornata alla ribalta grazie alla serie prodotta da Disney+ insieme a Monica Lewinsky. Nella serie, tramite l’impressionante interpretazione di Grace Van Patten nei panni della protagonista (da linguista, ho trovato stupefacente la resa del processo di apprendimento dell’italiano da parte di una nativa inglese che ha imparato la lingua direttamente sul set), viene presentata la versione dei fatti di Amanda, con particolare insistenza su quelli che Knox definisce i suoi quirks: ingenuità, atteggiamenti fuori norma, comportamenti che, in mancanza di prove, sono diventati l’ingrediente perfetto per costruire l’immagine di una giovane donna sessualmente deviata e quindi, per associazione arbitraria, colpevole.


Ma non è questo il punto del mio ragionamento. Non voglio aggiungere un altro “colpevole o innocente?” alla lista infinita di commenti. La vicenda mi porta invece a riflettere sul concetto di ingenuità: quella “innocenza” intesa come naivete. Knox, nel corso degli anni, ha attribuito molte delle inesattezze delle sue prime dichiarazioni alla propria immaturità e alla scarsa consapevolezza di cosa comportasse un’interrogazione di polizia in un Paese straniero. C’è certamente anche un fattore linguistico (traduzioni imperfette, incomprensioni), ma vale la pena concentrarsi sull’aspetto umano. A vent’anni, si dà per scontato che si sia già abbastanza adulti da capire tutto, da gestire la paura, da rispondere “correttamente”. Ma l’età anagrafica non coincide sempre con la maturità emotiva: quella dipende dalla vita, dalle esperienze, dal carattere.


Questa storia mi ha riportato alla mente Io non ho paura, romanzo (e poi film) di Niccolò Ammaniti. Il protagonista, un bambino di nove anni, trova un coetaneo segregato in un fosso. Non chiede aiuto, non lo tira fuori: scappa spaventato. E noi lettori comprendiamo immediatamente la sua reazione. “Ha nove anni, che ne può sapere?”


E allora mi chiedo: perché a vent’anni pretendiamo che la reazione sia radicalmente diversa? Perché fingiamo che la maggiore età sia una linea netta tra il non capire e il capire tutto? È giusto?


Forse, più che l’età, è la nostra idea di come dovremmo essere a guidare i giudizi. E, come spesso accade, ci dimentichiamo che l’ingenuità, quella vera, quella che non sa come muoversi di fronte al dolore, alla paura, alla complessità, non scompare magicamente al compimento dei diciotto anni. Rimane, silenziosa, finché un evento più grande di noi non la mette a nudo.


C’è però anche l’altro lato della medaglia. È legittimo invocare l’ingenuità come attenuante per aver minimizzato, almeno nella propria percezione, una situazione estremamente seria? E, soprattutto, è corretto trasformare quel medesimo concetto in una leva narrativa, fino a costruirvi sopra un vero e proprio impero mediatico?


Forse, allora, il punto non è decidere se l’ingenuità sia un alibi, una colpa o un tratto caratteriale destinato a essere giudicato. Piuttosto, questa vicenda e le sue molteplici interpretazioni ci invitano a guardare con più attenzione a quel momento in cui qualcuno riconosce apertamente la propria inesperienza, ammette di non aver capito, di non aver saputo reagire, di essersi trovato disarmato. È un gesto raro, quasi controcorrente, in un mondo che ci spinge a mostrarci sempre competenti, lucidi, impenetrabili.


Ammettere la propria ingenuità significa anche riconoscere i propri limiti. E forse è proprio questa vulnerabilità dichiarata che ci mette più a disagio: perché ci ricorda che, al di là delle distinzioni d’età, tutti potremmo trovarci nella stessa posizione: confusi, impreparati, incapaci di interpretare correttamente ciò che sta accadendo. La domanda da porsi non è quanto quell’ammissione sia “accettabile” ma cosa riveli delle nostre aspettative sugli altri e su noi stessi. Perché se giudichiamo con durezza l’ingenuità altrui, è spesso per paura di riconoscere la nostra.


Credo che ci sia del valore nella concessione di un dubbio: la fragilità, compresa la capacità di dire “non sapevo”, “non ho capito”, “non ero pronta”, fa parte dell’esperienza umana. E merita, almeno ogni tanto, di essere ascoltata prima di essere interpretata.

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