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Le pagine mancanti: un viaggio nella storia dimenticata delle donne

State percorrendo la strada statale sinnica che dalle pianure del mar Ionio vi porta nell’aspro entroterra lucano-calabrese. Mentre seguite il sinuoso tratto del fiume Sinni venite colpiti dall’austerità di paesi aggrappati a rocce brulle. Lì, troverete Valsinni adagiato su una collina sul fiume, luogo intriso di silenzio e memoria. Qui, si consumò la breve vita di Isabella di Morra, baronessa e poetessa rinascimentale per molti sconosciuta la cui voce fu brutalmente spezzata a soli 25 anni.

 

«I fieri assalti di crudel Fortuna

scrivo piangendo, e la mia verde etate;

me che ’n sì vili ed orride contrate

spendo il mio tempo senza loda alcuna.

 

Isabella è nata intorno al 1520, è stata educata all’arte e alla letteratura dal padre. Isabella visse i privilegi e le condanne del suo rango. Quando il padre fu costretto a fuggire in Francia per aver appoggiato i Valois contro Carlo V, Isabella rimase sola, imprigionata nel castello con fratelli che osteggiavano ogni sua inclinazione artistica e culturale. Quando iniziò una corrispondenza epistolare con Don Diego Sandoval de Castro, nobile spagnolo, i fratelli, accecati dall’odio e dalla paura del disonore, la uccisero. Uccisero anche lui. Bellezza contro brutalità. Voce contro silenzio. Il canzoniere di Isabella restò nell’ombra per secoli, fino a quando Benedetto Croce non lo riportò alla luce.


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Isabella è solo una delle tante donne che hanno lottato per lasciare una traccia nel tempo, spesso pagandola con la vita o con l’oblio. Donne come Christine de Pizan, la prima scrittrice professionista d’Europa, che nel XV secolo difendeva le donne dalle ingiurie dei letterati maschi; come Vittoria Colonna, poetessa e intellettuale amica di Michelangelo; come Eleonora de Fonseca Pimentel, intellettuale e rivoluzionaria napoletana impiccata per aver lottato per la repubblica partenopea; Maria Rosa Coccia, compositrice romana settecentesca, unica donna ammessa all’Accademia di S. Cecilia; e Artemisia Gentileschi, pittrice barocca che trasformò il dolore di una violenza subita in arte indimenticabile.


https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Artemisia_Gentileschi_-_Giuditta_decapita_Oloferne_-_Google_Art_Project.jpg
Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi (1593–1653) 

 

Donne straordinarie, ma raccontate a malapena. Per secoli, in Italia come altrove, la cultura è stata raccontata da una sola voce: quella maschile. I programmi scolastici e la società in generale parlavano da un punto di vista univoco. Ed è proprio dentro quel silenzio che ci siamo formate anche noi. Il vuoto delle "pagine mancanti" è diventato parte della nostra identità.

 

Io non ho risposte, ma ho qualche riflessione da proporvi. Perché la cultura, l’arte, la scienza, il pensiero sono stati appannaggio quasi esclusivo degli uomini? La risposta non è semplice, ma partiamo da un dato di fatto: l’alfabetizzazione femminile è un fenomeno recente.

 

È difficile stimare i tassi di alfabetizzazione per tempi lontani, tuttavia già nel medioevo i ragazzi dalla piccola borghesia in su ricevevano una forma di educazione, dalla chiesa, o perché figli di famiglie commercianti, dovevano avere contezza di documenti e numeri visto che l’eredità si passava solo ai figli maschi. In questo processo le ragazze rappresentavano solo un peso per le famiglie. Fino al rinascimento, l’alfabetizzazione femminile era un fenomeno raro, di alcune ristrette elite, un vezzo da sfoggiare nei salotti.

 

Con le rivoluzioni borghesi le cose non cambiarono molto. Dopo la rivoluzione francese, tutti i club femminili vennero chiusi e le attiviste arrestate. La famosa “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” non includeva le donne. Le donne istruite rappresentavano fino al 1800 una stretta minoranza e quando sei minoranza non hai voce. Le donne fino alla storia moderna non potevano accedere a formazioni professionali di alto livello come l’università.

 

Prendiamo Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, filosofa e scienziata brillante, la prima donna laureata al mondo, donna di eccezionale intelligenza, parlava almeno sette lingue, ma se non avesse avuto una famiglia influente, nobile, ricca e aperta (il padre era amico di Galileo Galilei), non ce l’avrebbe mai fatta. Quando tentò di laurearsi in teologia, le fu impedito: il vescovo di Padova affermò che “era uno sproposito dottorare una donna”. Si trovò un compromesso: filosofia sì, teologia no. Insegnare? Fuori discussione. Correva l’anno 1648 e l’università di Padova aveva oltre 400 anni. Oggi a Elena vengono dedicate statue, scuole e persino un cratere su Venere.

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Se c’è una cosa che rappresenta lo stigma per eccellenza sulle donne è quello secondo cui esse sono inadatte alle scienze e alla matematica. Ovviamente ora tutte state pensando a Marie Curie, Margherita Hack, o a Katherine Johnson e il suo staff di matematiche che con i loro calcoli portarono l’uomo sulla luna. Oggi però vorrei ricordare Trotula de Ruggiero, vissuta nel XII secolo a Salerno, centro della più importante scuola medica d’Europa. Fu la prima ginecologa della storia. Insegnava medicina alle donne, curava i dolori del parto con erbe, e metteva in discussione il pregiudizio che attribuiva ogni problema di fertilità alle donne. Le sue idee erano così rivoluzionarie che per secoli si dubitò della sua esistenza.

 

E qui arriviamo al nodo più profondo: la maternità e la libertà di disporre del proprio corpo e del proprio futuro.

 

Nel Medioevo e nel Rinascimento, ogni donna metteva al mondo tra i 5 e gli 8 figli nati vivi. La gravidanza e la cura dei neonati trasformano letteralmente il cervello delle donne: si riduce temporaneamente la materia grigia, per potenziare le connessioni neurali legate all’empatia e all’accudimento. Questo cambiamento fisiologico può durare anni. Ora immaginate di ripeterlo sette, otto, nove volte, senza assistenza, senza riposo. Senza dimenticare anche le difficoltà di avere tante gravidanze, i rischi del parto, la fatica di accudire i bambini, la mancanza di sonno.

 

Studi recenti dimostrano che le donne nel tempo recuperano questi cambiamenti cerebrali e che la materia grigia si rigeneri a tal punto da avere effetti benefici che ritardano l’invecchiamento cognitivo.

 

Ma le donne del passato di questo non potevano beneficiarne. Metà della loro esistenza era assorbita da una funzione biologica fondamentale per la comunità, ma che non ha mai dato loro potere o rappresentanza.

 

Quella metà della vita però non è mai stata tolta agli uomini che non si dedicavano all’accudimento, e non hanno questo meccanismo fisiologico che fa rimpicciolire il proprio “io” per permettere a qualcun altro di crescere.

 

Oggi siamo ancora orfane del nostro passato, delle rappresentazioni del femminile, di modelli a cui aspirare, e questo proietta in noi il dubbio di non meritarci il presente e il futuro. Ce lo meritiamo questo spazio? Quel dubbio silenzioso e persistente ci fa mettere in discussione il nostro stesso valore.

 

E allora, sì: siamo state ingannate. Derubate della nostra storia da una cultura che ci ha escluse, proprio da quella cultura occidentale in cui viviamo e a cui sentiamo di appartenere.

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In quanto donna e madre sono molto preoccupata. Sento che la narrazione attuale sta per toglierci anche quello spiraglio di autocoscienza che stavamo faticosamente recuperando. E se non siamo noi a riportare le donne nel racconto del mondo – nell’arte, nella scienza, nella filosofia, nella storia – nessuno lo farà al posto nostro.

 

Ora mi rivolgo a voi uomini, non abbiate paura di accompagnarci in questo viaggio condiviso di consapevolezza ed epifanie. A voi donne, compagne di questo viaggio cosí carico di incertezze, vi lascio con un compito: scegliete uno dei nomi che avete incontrato in queste righe, o un altro nome che vi risuona. Portatelo con voi. Tenetelo stretto. E quando il dubbio tornerà, pronunciatelo ad alta voce. Quel nome sarà la vostra risposta.

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