La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. Lo sanno bene i magistrati: non avviene quasi mai che due testimoni oculari dello stesso fatto lo descrivano allo stesso modo e con le stesse parole, anche se il fatto è recente, e se nessuno dei due ha un interesse personale a deformarlo. […]
Intendo esaminare qui i ricordi di esperienze estreme, di offese subite o inflitte. In questo caso sono all’opera tutti o quasi i fattori che possono obliterare o deformare la registrazione mnemonica: il ricordo di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il dolore; chi ha ferito ricaccia il ricordo nel profondo, per liberarsene, per alleggerire il suo senso di colpa. [...]
Qui, come in altri fenomeni, ci troviamo davanti ad una paradossale analogia tra vittima ed oppressore, e ci preme essere chiari: i due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e che l’ha fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che ne soffra; ed è iniquo che ne soffra la vittima, come invece ne soffre, anche a distanza di decenni.
Non vogliamo confusioni, freudismi spiccioli, morbosità, indulgenze. L’oppressore resta tale, e così la vittima: non sono intercambiabili, il primo è da punire e da esecrare (ma se possibile, da capire), la seconda è da compiangere e da aiutare; ma entrambi, davanti all’indecenza del fatto che è stato irrevocabilmente commesso, hanno bisogno di rifugio e di difesa, e ne vanno istintivamente in cerca. Non tutti, ma i più; e spesso per tutta la loro vita.
Disponiamo ormai di numerose confessioni, deposizioni, ammissioni da parte degli oppressori (non parlo solo dei nazionalsocialisti tedeschi, ma di tutti coloro che commettono delitti orrendi e multipli per obbedienza ad una disciplina): alcune rilasciate in giudizio, altre nel corso di interviste, altre ancora contenute in libri o memoriali. A mio parere, sono documenti di estrema importanza. In generale, interessano poco le descrizioni delle cose viste e degli atti compiuti: esse coincidono ampiamente con quanto è stato raccontato dalle vittime; assai raramente vengono contestate, sono passate in giudicato e fanno ormai parte della Storia. Spesso vengono date per note. Sono molto più importanti le motivazioni e le giustificazioni: perché lo hai fatto? Ti rendevi conto di commettere un delitto?
Le risposte a queste due domande, o ad altre analoghe, sono molto simili fra loro, indipendentemente dalla personalità dell’interrogato, sia egli un professionista ambizioso ed intelligente come Speer, o un gelido fanatico come Eichmann, o un funzionario di vista corta come Stangl di Treblinka e Höss di Auschwitz, o un bruto ottuso come Boger e Kaduk inventori di torture. Espresse con formulazioni diverse, e con maggiore o minor protervia a seconda del livello mentale e culturale di chi parla, esse vengono a dire tutte sostanzialmente le stesse cose: l’ho fatto perché mi è stato comandato; altri (i miei superiori) hanno commesso azioni peggiori delle mie; data l’educazione che ho ricevuta, e l’ambiente in cui sono vissuto, non potevo fare altro; se non l’avessi fatto, l’avrebbe fatto con maggiore durezza un altro al mio posto. Per chi legge queste giustificazioni, il primo moto è di ribrezzo: costoro mentono, non possono credere di essere creduti, non possono non vedere lo squilibrio fra le loro scuse e la mole di dolore e di morte che essi hanno provocata. Mentono sapendo di mentire: sono in mala fede.
Ora, chiunque abbia sufficiente esperienza delle cose umane sa che la distinzione (l'opposizione, direbbe un linguista) buona fede/mala fede è ottimistica ed illuministica, e lo è tanto più, ed a molto maggior ragione, se applicata a uomini come quelli appena nominati. Presuppone una chiarezza mentale che è di pochi, e che anche questi pochi perdono immediatamente quando, per qualsiasi motivo, la realtà passata o presente provoca in loro ansia o disagio. In queste condizioni c’è bensì chi mente consapevolmente falsificando a freddo la realtà stessa, ma sono più numerosi coloro che salpano le ancore, si allontanano, momentaneamente o per sempre, dai ricordi genuini, e si fabbricano una realtà di comodo. Il passato è loro di peso; provano ripugnanza per le cose fatte o subite, e tendono a sostituirle con altre. La sostituzione può incominciare in piena consapevolezza, con uno scenario inventato, mendace, restaurato, ma meno penoso di quello reale; ripetendone la descrizione, ad altri ma anche a se stessi, la distinzione fra vero e falso perde progressivamente i suoi contorni, e l’uomo finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così spesso e che ancora continua a fare, limandone e ritoccandone qua e là i dettagli meno credibili, o fra loro incongruenti, o incompatibili con il quadro degli eventi acquisiti: la mala fede iniziale è diventata buona fede. Il silenzioso trapasso dalla menzogna all’autoinganno è utile: chi mente in buona fede mente meglio, recita meglio la sua parte, viene creduto più facilmente dal giudice, dallo storico, dal lettore, dalla moglie, dai figli.
Più si allontanano gli eventi, più si accresce e si perfeziona la costruzione della verità di comodo. Credo che solo attraverso questo meccanismo mentale si possano interpretare, ad esempio, le dichiarazioni fatte all’ «Express » nel 1978 da Louis Darquier de Pellepoix, già commissario addetto alle questioni ebraiche presso il governo di Vichy intorno al 1942, e come tale responsabile in proprio della deportazione di 70000 ebrei. Darquier nega tutto: le foto dei cumuli di cadaveri sono montaggi; le statistiche dei milioni di morti sono state fabbricate dagli ebrei, sempre avidi di pubblicità, di commiserazione e di indennizzi; le deportazioni ci saranno magari anche state (gli sarebbe stato difficile contestarle: la sua firma compare in calce a troppe lettere che danno disposizioni per le deportazioni stesse, anche di bambini), ma lui non sapeva verso dove e con quale esito; ad Auschwitz le camere a gas c’erano sì, ma servivano solo per uccidere i pidocchi, e del resto (si noti la coerenza!) sono state costruite a scopo di propaganda dopo la fine della guerra. Non intendo giustificare quest’uomo vile e sciocco, e mi offende sapere che ha vissuto a lungo indisturbato in Spagna, ma mi pare di poter ravvisare in lui il caso tipico di chi, avvezzo a mentire pubblicamente, finisce col mentire anche in privato, anche a se stesso, e coll’edificarsi una verità confortevole che gli consente di vivere in pace. Tenere distinte la buona e la mala fede è costoso: richiede una profonda sincerità con se stesso, esige uno sforzo continuo, intellettuale e morale. Come si può pretendere questo sforzo da uomini come Darquier?
Se si leggono le dichiarazioni fatte da Eichmann durante il processo di Gerusalemme, e di Rudolf Höss (il penultimo comandante di Auschwitz, l’inventore delle camere ad acido cianidrico) nella sua autobiografia, vi si riconosce un processo di elaborazione del passato, più sottile di quello ora accennato. In sostanza, questi due si sono difesi nel modo classico dei gregari nazisti, o meglio di tutti i gregari: siamo stati educati all’obbedienza assoluta, alla gerarchia, al nazionalismo; siamo stati imbevuti di slogan, ubriacati di cerimonie e manifestazioni; ci hanno insegnato che la sola giustizia era ciò che giovava al nostro popolo, e la sola verità erano le parole del Capo. Che cosa volete da noi? Come potete pensare di pretendere da noi, a cose fatte, un comportamento diverso da quello che è stato il nostro, e di tutti quelli che erano come noi? Siamo stati diligenti esecutori, e per la nostra diligenza siamo stati lodati e promossi. Le decisioni non sono state nostre, perché il regime in cui siamo cresciuti non ci concedeva decisioni autonome: altri hanno deciso per noi, e non poteva avvenire altrimenti, perché eravamo stati amputati della capacità di decidere. Non solo decidere ci era stato vietato, ma ne eravamo diventati incapaci. Perciò non siamo responsabili e non possiamo essere puniti.
Anche se proiettata sullo sfondo dei camini di Birkenau, questa argomentazione non può essere presa come frutto di pura impudenza. La pressione che uno Stato moderno totalitario può esercitare sull’individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente sono tre: : la propaganda diretta, o camuffata da educazione, da istruzione, da cultura popolare; lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni; il terrore. Tuttavia, non è lecito ammettere che questa pressione sia irresistibile, tanto meno nel breve termine dei dodici anni del Terzo Reich: nelle affermazioni e nelle discolpe di uomini dalle gravissime responsabilità, quali erano Höss e Eichmann, è palese l’esagerazione, ed ancor più la manomissione del ricordo. Entrambi erano nati ed erano stati educati molto prima che il Reich diventasse veramente «totalitario», e la loro adesione era stata una scelta, dettata più da opportunismo che da entusiasmo. La rielaborazione del loro passato è stata opera posteriore, lenta e (probabilmente) non metodica. Domandarsi se sia stata fatta in buona o in mala fede è ingenuo. Anche loro, così forti di fronte al dolore altrui, quando il destino li ha messi davanti ai giudici, davanti alla morte che hanno meritato, si sono costruiti un passato di comodo ed hanno finito per credervi: in special modo Höss, che non era un uomo sottile. Quale appare dal suo scritto, era anzi un personaggio talmente poco propenso all’autocontrollo ed all’introspezione che non si accorge di confermare il suo grossolano antisemitismo nell'atto stesso in cui lo rinnega e lo nega, e da non rendersi conto di quanto appaia viscido il suo autoritratto antisemitismo di buon funzionario, padre e marito.
A commento di queste ricostruzioni del passato (ma non solo di queste: è un’osservazione che vale per tutte le memorie), si deve notare che la distorsione dei fatti è spesso limitata dall’obiettività dei fatti stessi, intorno ai quali esistono testimonianze di terzi, documenti, «corpi del reato», contesti storicamente acquisiti. E generalmente difficile negare di aver commesso una data azione, o che questa azione sia stata commessa; è invece facilissimo alterare le motivazioni che ci hanno condotto ad un’azione, e le passioni che in noi hanno accompagnato l’azione stessa. Questa è materia estremamente fluida, soggetta a deformarsi sotto forze anche molto deboli; alle domande «perché lo hai fatto?», o «cosa pensavi facendolo?», non esistono risposte attendibili, perché gli stati d’animo sono labili per natura, e ancora più labile è la loro memoria.
Come caso limite della deformazione del ricordo di una colpa commessa, c’è la sua soppressione. Anche qui il confine tra buona e mala fede può essere vago; dietro i «non so» e i «non ricordo» che si sentono nei tribunali c’è talvolta il preciso proposito di mentire, ma altre volte si tratta di una menzogna fossilizzata, irrigidita in una formula. Il memore ha voluto diventare immemore e ci è riuscito: a furia di negarne l’esistenza, ha espulso da sé il ricordo nocivo come si espelle un’escrezione o un parassita. Gli avvocati difensori sanno bene che il vuoto di memoria, o la verità putativa, che essi suggeriscono ai loro difesi, tendono a diventare dimenticanze e verità effettive. Non occorre sconfinare nella patologia mentale per trovare esemplari umani le cui affermazioni ci lasciano perplessi: sono certamente false, ma non riusciamo a distinguere se il soggetto sa o non sa di mentire. Supponendo per assurdo che il mentitore diventi per un istante veridico, lui stesso non saprebbe rispondere al dilemma; nell’atto in cui mente è un attore totalmente fuso col suo personaggio, non è più discernibile da lui. Ne è un esempio vistoso, nei giorni in cui scrivo, il comportamento in tribunale del turco Alì Agca, l'attentatore di Giovanni Paolo II.
Il modo migliore per difendersi dall’invasione di memorie pesanti è impedirne l’ingresso, stendere una barriera sanitaria lungo il confine. È più facile vietare l’ingresso a un ricordo che liberarsene dopo che è stato registrato. A questo, in sostanza, servivano molti degli artifizi escogitati dai comandi nazisti per proteggere le coscienze degli addetti ai lavori sporchi, e per assicurarsi i loro servizi, sgradevoli anche per gli scherani più induriti. Agli Einsatzkommandos, che nelle retrovie del fronte russo mitragliavano i civili sull’orlo delle fosse comuni che le vittime stesse erano costrette a scavare, veniva distribuito alcool a volontà, in modo che il massacro venisse velato dall'ubriachezza. I ben noti eufemismi («soluzione finale», «trattamento speciale», lo stesso termine «Einsatzkommando» appena citato, che significa letteralmente «Unità di pronto impiego», ma mascherava una realtà spaventosa) non servivano solo ad illudere le vittime ed a prevenirne le reazioni di difesa: valevano anche, nei limiti del possibile, ad impedire che l’opinione pubblica, e gli stessi reparti delle forze armate non direttamente implicati, venissero a conoscenza di quanto stava accadendo in tutti i territori occupati dal Terzo Reich.
Del resto, l’intera storia del breve «Reich Millenario» può essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima. Tutte le biografie di Hitler, discordi sull’interpretazione da darsi alla vita di quest’uomo così difficile da classificare, concordano sulla fuga dalla realtà che ha segnato i suoi ultimi anni, soprattutto a partire dal primo inverno russo. Aveva proibito e negato ai suoi sudditi l’accesso alla verità, inquinando la loro morale e la loro memoria; ma, in misura via via crescente fino alla paranoia del Bunker, aveva sbarrato la via della verità anche a se stesso. Come tutti i giocatori d’azzardo, si era costruito intorno uno scenario intessuto di menzogne superstiziose, in cui aveva finito col credere con la stessa fede fanatica che pretendeva da ogni tedesco. Il suo crollo non è stato soltanto una salvazione per il genere umano, ma anche una dimostrazione del prezzo che si paga quando si manomette la verità.
Primo Levi, La memoria dell'offesa, I. Capitolo, estratto, in ivi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986 (2024 Edizione speciale per GEDI News Network S.p.A.)
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