Cominciava la vorticosa stesura di una delle opere più belle della nostra letteratura agli inizi del 1824, precisamente duecento anni fa. Il conte Giacomo Leopardi, noto per essere il poeta dell’Infinito, si dedicava alla realizzazione del libro a cui teneva più che ai suoi occhi, stando ad una sua confessione, oggi contenuta nell’Epistolario. Le Operette morali verranno scritte in appena undici mesi e sono una raccolta di testi, nella maggior parte sotto forma di dialogo, apparentemente slegati. Affrontano una molteplicità di temi, situazioni ed argomenti filosofici di stupefacente attualità.
La rete semantica che abbraccia ogni operetta rivela una studiata e fittissima interconnessione tra la Weltanschauung dell’autore e quella di una miriade di pensatori antichi e moderni. Come ho tentato di dimostrare durante il mio lavoro di tesi magistrale, seguendo una vasta schiera di critici che hanno impiegato buona parte della propria vita a studiarne l’essenza sfuggente e aeriforme, cercando di rendere maggiormente esplorabile l’affascinante contenuto metamorfico, la conoscenza di questo capolavoro permette di moltiplicare l’orizzonte mentale di chiunque vi si approcci.
Sono di parte e tutt’altro che oggettiva nella mia volontà divulgativa, ma ogni ora trascorsa in compagnia di uno scritto leopardiano mi ha restituito “tanta vita”. Tornando a quanto ho potuto scoprire, nella loro forma compiuta, le Operette morali contengono ventiquattro testi, disposti secondo l’ultima volontà dell’autore che ne curò personalmente l’edizione: salvo, però, vedersi sospesa la stampa per mancato licet della censura partenopea. Il contenuto dovette urtare non poco la sensibilità dei contemporanei, tanto da rischiare di non giungere mai ai posteri.[1]
La moralità è la protagonista dell’impianto filosofico dell’intero disegno leopardiano, chiaramente indicata già nel titolo. Argomento ampiamente indagato dal giovane Recanatese in numerosissime pagine dello Zibaldone, ovvero lo scartafaccio in cui dal 1818 annota di tutto: pensieri, considerazioni critiche, linguistiche, politiche, antropologiche, e chi più ne ha più ne metta. Dunque, proprio la morale ottocentesca, gli ideali filosofici reazionari e post-rivoluzionari, le spinte romantiche e nazionaliste, tutto insomma diventa materia delle Operette, che pure avevano l’arduo compito di fornire alla “letteratura italiana” una lingua e uno stile compositivo adeguato, capace di essere compreso non soltanto dagli accademici, ma anche da un nuovo pubblico, desideroso di un’istruzione laica e orizzontale.
L’esistenza umana, a partire dal singolarissimo “io” leopardiano, viene allora passata al vaglio del suo rigore analitico e poetico: egli ne segnala le “evidentissime” contraddizioni e i limiti, operetta dopo operetta, mettendo in crisi irreversibile il principio di non contraddizione e offrendone un quadro straordinariamente ricco e storicamente verificabile, capace di declinarne gli ambiti di pertinenza.
Il libro si apre con la Storia del genere umano, una delle operette più lunghe, che pure lo impegna per una manciata di giorni: all’ombra della mitologia greca e del neoplatonismo, si mettono in discussione i dogmi dei principali monoteismi e si profila l’ampio respiro della potenza riflessiva leopardiana. Con un “colpo d’occhio” formidabile, con una storia apparentemente semplice, si dà conto dell’esistente e dei perché più scomodi: centrale il tema della mancata felicità degli esseri umani di ogni tempo e luogo, dalla preistoria alla contemporaneità. Ma rassegnarsi e togliersi la vita non è proprio da Giacomo, anzi! Così, concimando un livore malcelato nei confronti della Natura, rea di ogni cosa, poiché ha sancito l’infelicità ontologica degli esseri umani, si profila una doppia trama, che denuncia l’arido vero ormai acquisito e si scaglia violentemente contro ogni visione antropocentrica e teleologica, entrambe frutto d’illusioni insostenibili.
Il testo con cui inaugura la sua prosa artistica – la migliore prosa esistente fino ad allora in lingua italiana stando al giudizio del contemporaneo Niccolò Tommaseo, esponente culturale di spicco e tra i massimi detrattori del pensiero leopardiano – è orientato a dimostrare ciò che verrà più volte ribadito e riscontrato nelle successive operette, per questo funge anche da premessa. Lo stile e il messaggio leopardiano risultano estremamente in controtendenza con le istanze morali contemporanee. Leopardi denuncia il male di vivere, molto prima di Montale, ma lo fa con sagacia ironica e maniacale studio stilistico. Nelle Operette il “tuono” prevalente con cui maieuticamente s’interroga il lettore e a cui Leopardi offre un’infinità di prove volte a codificare una verità terribile, che confina l’uomo ai margini dell’esistente, permette un viaggio straordinario, in una caleidoscopica galassia mitica, fantastica, storica, antropologica, realistica, quasi filmica, con risposte ancora valide ed esistenziali.
Cosa più importante di tutte, la componente ironica che è l’arma con cui Giacomo si riappropria della possibilità di divergere dal proprio tempo, proiettandosi “oltre la siepe” in cui gli era capitato di nascere. Con un sorriso che muta di volta in volta, sarcastico e beffardo ma mai irrispettoso della compassione che sente per le sofferenze dei mortali, quelle implicite nell’esserci che egli per primo sente senza soluzione di continuità, segnala proprio attraverso il riso la “terza via”.
Quella realmente virtuosa, che consente di attraversare l’esistenza circoscrivendone i danni, le delusioni, le amarezze. La fantasia leopardiana sembra davvero illimitata nella prosa delle Operette morali: con due secoli di anticipo, infatti, arriva ad ipotizzare il mondo “sanza gente” in un distopico (ma profondamente verosimile) scambio contenuto nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo. I protagonisti fantastici si prendono gioco della scelleratezza dell’ormai estinta razza umana: naturalmente, questa tecnica narrativa crea un forte effetto straniante sul lettore, che si vede descritto in maniera impietosa, ma pur vera. Gli umani, esseri fragilissimi e capaci solo di manifestare balorda tracotanza, violenza e distruzione: Folletto e Gnomo, infatti, sono lieti che siano estinti.
Quanto possa risultare moderno lo sguardo leopardiano è immediato. Ecco perché di Leopardi si è innamorata buona parte della posterità, letteraria e scientifica tout court: anticipa Darwin, e fonda una sorta di proto-evoluzionismo che fa dell’uomo soltanto una delle infinite specie esistenti in natura, negando ogni dogmatismo e ogni finalismo. Secondo Leopardi, per la vastità dell’Universo e delle conoscenze non ancora acquisite dall’umanità, nulla supporta la tesi secondo la quale l’esistente sia stato creato per il bene dell’essere umano. Anzi, in molte, se non in tutte le operette, egli riconosce il valore altissimo dell’intelletto umano e l’enorme potenziale che ha il logos (inteso in ogni accezione, inclusa la creazione poetica). Tuttavia, per natura, l’apparente vantaggio dell’intelletto è, poi, un ostacolo immenso al godimento della felicità per la specie umana.
Senza fare troppo spoiler, sperando questo articolo possa in qualche misura incuriosire e invogliare a leggere anche soltanto una delle operette, magari l’Elogio degli uccelli che è la mia preferita, per concludere, è il caso di ricordare quanta riconoscenza lo stesso Italo Calvino afferma di provare nei confronti di Leopardi e di quest’opera in particolare, per l’estrema leggerezza che esso contiene.
Un testo all’avanguardia, insomma, un vero classico che impegnò Leopardi per buona parte della sua breve ma intensa vita. E, proprio grazie ai retroscena editoriali, è possibile incontrare “un altro Leopardi”, più umano e inedito rispetto a come lo si studia a scuola: maniacale editor di sé, che si batte a suon di epistole per vedersi riconosciuti i frutti di un lavoro grandioso, sebbene rinnegato dal costume perbenista e ipocrita ottocentesco. Dalla prima edizione milanese del 1827, presso i caratteri dell’editore Antonio Fortunato Stella – anno in cui uscì anche la prima edizione del capolavoro manzoniano, ironia della sorte – fino al 1835, anno in cui Leopardi lavora alla terza edizione delle Operette morali, per l’editore napoletano Saverio Starita, il suo impegno è crescente, senza vederne la pubblicazione: questo rende il libro testimone diretto e fedele del carattere del suo autore.
Affascinante lo scambio epistolare che permette di seguirne le fasi ideative ed evolutive, con pareri e impressioni davvero sorprendenti: è consigliato spulciare la voce di Leopardi che si batte perché i diritti d’autore, allora del tutto inesistenti, vengano rispettati, non solo in termini economici, ma anche in relazione alla sua paternità intellettuale e stilistica.
Se la morale del secolo “sciocco e superbo”, com’egli ebbe a definirlo, veniva messa alla berlina con prove incontrovertibili, stupisce ancora di più il mindset con cui Giacomo, giovanissimo, affronta a testa alta l’ostilità dei coevi e l’esilio indiretto a cui si auto-condanna, pubblicando questo libro snobbato da buona parte dei salotti più importanti del Gothà culturale ottocentesco. Straordinaria la forza intellettuale del suo “pensiero poetante”, come lo ha definito Antonio Prete. Forse, il fiore del deserto non è riservato soltanto alla lirica filosofica dei Canti, ma anche a questo “florilegio” che merita di rivivere attraverso lo sguardo più attento dei lettori del XXI secolo.
[1] Per i più curiosi, la vicenda editoriale è stata magistralmente ricostruita da diversi studiosi in un ricchissimo saggio che ho amato studiare e che consiglio vivamente: “Quel libro senza uguali": le "Operette morali" e il Novecento italiano, Bulzoni, Roma 2000.