«A volte mi sento come una bambola a molle: gira la chiave e ti dirò esattamente quello che vuoi sentire.»
Tiffani Fanelli, da tutti chiamata Ani, è la protagonista del film La ragazza più fortunata del mondo, che ha avuto il suo debutto su Netflix, l’ottobre dello scorso anno. È una newyorkese di grande successo, bellissima, determinata, che sembra avere tutto dalla vita: un guardaroba all’ultima moda, un impiego di prestigio in una rivista patinata, prossima a diventare editor del New York Times e a convolare a nozze con un uomo affascinante e ricco. Per lei, che proviene dalla periferia e che ha potuto frequentare la prestigiosa Brentley School grazie a una borsa di studio, si prospetta una vita appagante nella società alto borghese di cui è entrata a far parte. Ma questa immagine di femmina alfa, forte, feroce e persino insensibile, non è altro che una finzione benvestita.
Un’intervista per un documentario crime rischia di distruggere tutto il mondo che Ani si è costruito a fatica e a strapparle la maschera che ha indossato per anni, dietro alla quale, per proteggersi, ha nascosto le crepe di traumi giovanili che attendono di essere sanati, soffocando insieme però anche ogni possibilità di essere una persona autentica.
È infatti agli anni del liceo che risalgono le esperienze dolorose da lei vissute e che si ripresentano a turbare il suo già instabile equilibrio. Prima di tutto Ani ha subito una violenza sessuale di gruppo, un evento con cui mai lei ha fatto i conti, da cui sempre è scappata. Ma che è causa del suo atteggiamento, del suo malessere, dei suoi disturbi emotivi e alimentari, delle sue frustrazioni.
Ani non ha mai avuto il coraggio di denunciare i suoi stupratori, non è mai riuscita a riconoscere la gravità dell’aggressione, rinunciando allo stesso diritto di considerarsi vittima, mettendo a tacere il suo “briciolo di dignità”. Non solo per paura delle conseguenze, ma per continuare a essere accettata dal gruppo dominante, dagli studenti popolari della scuola prestigiosa che frequenta. Per il conformismo della madre, che teme l’opinione della gente e che accusa la figlia di "essersela cercata”.
Il film si ispira al romanzo omonimo pubblicato da Jessica Stoll nel 2015 (il titolo originale: Luckiest Girl Alive) che, pur drammatizzandole per fini narrativi, riprende in parte anche le stesse vicende vissute dall'autrice in prima persona: la drammatica esperienza che l’ha segnata ai tempi in cui frequentava una scuola superiore privata. Tralasciando quindi il risvolto tragico, stile Columbine, ciò ci spinge a riflettere sulla cruda realtà di questa narrazione e sul coinvolgimento in essa dei personaggi e della protagonista. Nessuno sembra colpevole fino in fondo, nessuno innocente fino in fondo. Tutti però sono vittime? Nessuno è solo un mostro, ma ognuno è responsabile per ciò che ha fatto e delle conseguenze che ne derivano? Ci sono innocenti? In particolare, se la ragazza avesse denunciato i propri aguzzini avrebbe forse impedito la spirale di violenze e abusi culminata poi nella strage nella scuola? Invece di vergognarsi e temere il giudizio degli altri, della madre compresa? Forse sì. Forse no. Ma sono gli interrogativi dinanzi a cui ci pone il film, duro come un pugno nello stomaco.
Ma ciò che è assolutamente mostruoso è il perbenismo ipocrita che conduce una giovane donna a mettere in atto questi meccanismi di difesa e nello stesso tempo autolesionisti, a costruire relazioni inautentiche, a diventare come gli altri chiedono di essere, o forse sarebbe più corretto dire: apparire, modellarsi secondo i loro standard. «Gira la chiave e ti dirò esattamente quello che vuoi sentire.»
È mostruoso il conformismo che spinge le donne a credere che solo negoziando possano realizzare se stessa, che, per sentirsi appagate, debbano raggiungere un certo status sociale, vivere una vita in ombra, accanto a un uomo di potere e di successo. Una posizione sociale come riscatto, dunque, dove è facile seppellire un segreto che nessuno cercherà mai, nessuno vorrà mai cercare. È tutto ben lontano, a chilometri di distanza da ogni forma di emancipazione femminile. Un'emancipazione tradita! Tra moderni ciechi, che guardano e non vedono. Mostri che creano mostri e sono a caccia di mostri.
Alla fine, Ani, splendidamente interpretata dall’attrice ucraina Mila Kunis, acquista la consapevolezza che la scalata sociale da lei intrapresa le darà sì, prestigio, ma a un costo elevatissimo: soffocare per sempre il suo dolore e la sua voce, la sua autenticità, la verità. In un mondo dove l’apparenza è essenziale e non accetta neppure che lei si riconosca vittima di uno stupro, compiuto proprio dai figli di quel sistema, Ani riuscirà a diventare la persona degna del valore che merita, solo se saprà riappropriarsi della sua voce per raccontarsi senza preoccuparsi più di cosa pensi o dica la gente dabbene.
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