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Sinodo, papa e la benedizione alle coppie gay. Apertura della Chiesa? Forse sì…, forse no!

Gesù disse ai suoi Giudei: «La legge era per i servi. Amate Dio come lo amo io, come figlio suo! Che cosa importa a noi figli di Dio della morale?»

Friedrich Nietzsche


È certo che gli omosessuali non vengano più condannati al rogo. Grazie a Dio! Tuttavia, è lecito chiedersi se la chiesa e la morale cattoliche stiano effettivamente avviando un processo di sostanziale apertura verso le persone lgbtqia+. In particolare, le dichiarazioni di Bergoglio, rilasciate lungo tutto il suo pontificato, a partire da quella clamorosa, chi sono io per giudicare i gay? del 2013, per arrivare alla più recente intervista alla rivista cattolica spagnola Vita Nueva, secondo la quale anche le persone transessuali sono figlie di Dio, esprimono una certa apertura o solo ambiguità?

Long Thien, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

È avviso di chi scrive che da parte della chiesa cattolica e della sua morale ogni possibile apertura è preclusa. E che né tantomeno si possa parlare di ambiguità del papa, in quanto le sue dichiarazioni sono in linea con questa morale. Affermo ciò con personale rammarico. Un’apertura sarebbe auspicabile. Non perché io mi ponga il problema di ciò che affermino Scritture, Tradizione e Magistero. Ma per tutt3 le persone lgbtqia+, che vivono autentiche esperienze d’amore con partner dello stesso sesso, che sono nel contempo credenti e cattolich3 e che, non considerando entrambe le condizioni meri accessori di cui fare a meno, desiderano sinceramente vivere e essere riconosciut3 all’interno della loro comunità di fede di appartenenza e dalle loro guide.


C’è però, verso costoro, un approccio pastorale da qui sembri trapelare una certa disponibilità della chiesa all'accoglienza, pur restando ferma sui suoi principi morali indiscutibili. È questa duplicità a dare, a un primo sguardo, quell'impressione di ambiguità di cui sopra. Perché nel momento in cui con una mano si spalanca una porta, con l’altra si chiude un portone.

È ciò che è successo in occasione del Sinodo in Vaticano, avviato lo scorso mercoledì 4 ottobre, riportando in auge la questione sui gay. Il Pontefice ha risposto a 5 Dubia da parte di alcuni porporati: il tedesco Walter Brandmüller (94 anni) e lo statunitense Raymond Leo Burke (75), il messicano Juan Sandoval Íñiguez (90), il guineano Robert Sarah (78) e il cinese Joseph Zen Ze-kiun (91). Questi Dubia riguardavano la benedizione delle coppie omosessuali, l’ordinazione delle donne al sacerdozio, l’assoluzione sacramentale data a tutti e sempre, senza condizioni. Per ciò che concerne la questione che ci interessa, le benedizioni alle coppie gay, la risposta del papa, pubblicata da VaticanNews in una traduzione in italiano, è stata la seguente:

«la Chiesa ha una concezione molto chiara del matrimonio: un’unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta a generare figli».

Tuttavia

«nel rapporto con le persone, non si deve perdere la carità pastorale, che deve permeare tutte le nostre decisioni e atteggiamenti».

Pertanto

«la prudenza pastorale deve discernere adeguatamente se ci sono forme di benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano un concetto errato del matrimonio». 

Perché

«quando si chiede una benedizione, si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per poter vivere meglio, una fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio».

D’altra parte, ed è questo un altro aspetto decisivo,

«sebbene ci siano situazioni che dal punto di vista oggettivo non sono moralmente accettabili, la stessa carità pastorale ci impone di non trattare semplicemente come “peccatori” altre persone la cui colpa o responsabilità può essere attenuata da vari fattori che influenzano l’imputabilità soggettiva».

Queste affermazioni confermano l’idea secondo la quale per la chiesa cattolica e i papa l’omosessuale è un peccatore. Più precisamente, per usare le parole del Catechismo della chiesa cattolica: «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati», cioè contrari «alla legge naturale» e pertanto da considerare in se stessi devianze, perversioni, intrinsecamente cattivi (intrinsece malum). Questo è un fatto, un fatto moralmente oggettivo. Punto. Anzi, punto e virgola. Perché ciò non significa emettere un giudizio di condanna nei riguardi della persona che compie quegli atti, non direttamente almeno. È possibile fare un distinguo tra atto (oggettivo) e persona, come spesso si usa fare nell’ambito della teologia morale cattolica.


È molto interessante la spiegazione che offre il teologo gesuita, Sergio Bastianel, quando parlando di oggettività morale, distingue tra moralmente corretto e moralmente buono:

«Una valutazione che non rispetti la oggettività dei valori è oggettivamente scorretta. Ma è possibile, in base alle condizioni oggettive del soggetto (il soggetto “oggettivamente” non sa una cosa, e non per colpa sua) che si compia un’azione scorretta, con un’intenzione e la convinzione di farla corretta».

Il teologo fa due esempi: quello del chirurgo che opera ma a cui hanno dato informazioni errate che, non per colpa sua, causano la morte del paziente. In questo caso, «il giudizio e la scelta sono moralmente buoni, ma c’è stato un errore oggettivo»; e quello della «legge del taglione»: sebbene i giudizi morali alla base della norma erano oggettivamente scorretti, «probabilmente molti li hanno posti e vissuti da persone moralmente buone», cioè ritenendo di fare il bene che avevano compreso come tale. Quindi il gesuita giunge a indicare tre criteri di riferimento necessari (fonti della moralità), distinti ma non separabili, utili a comprendere se un comportamento è moralmente buono o moralmente negativo:


- l’oggetto: ciò cui tende l’azione, il suo risultato materiale reale (finis operis);

- il fine: il fine dell’agente, cioè quello che si vuole raggiungere, ciò che è oggetto della libera decisione del soggetto (finis operantis);

- le circostanze.


Proviamo a declinarli in riferimento gli atti omosessuali. Secondo la morale cattolica, ciò a cui portano questi atti (il finis operis), anzi ciò a cui non portano, li rende l’intrinsecamente disordinati, a prescindere dalle possibili ulteriori finalità del soggetto (il finis operantis di chi li compie). In base a questa logica, seppure le intenzioni soggettive sono sincere, nel senso che la persona è seriamente convinta di vivere un amore autentico attraverso l’atto omosessuale, il finis operis di quest’ultimo resta e resterà imperturbabilmente un male. Essendo l’atto sessuale finalizzato alla procreazione ha validità solo in una relazione eterosessuale, dunque è il finis operis/risultato di questa a renderla intrinsecamente buona. Il soggetto che devia da essa sta assumendo un comportamento negativo, compie cioè atti intrinsecamente cattivi.


Nello stesso tempo, però, è necessario valutare le circostanze in cui quell’atto si compie, come anche le condizioni del soggetto, le sue conoscenze, le sue possibilità etc. Qui entra in gioco la terza fonte: le circostanze. Sebbene al soggetto venga chiesto di allineare il suo fine con quello dell’azione, non possono essere trascurate le condizioni oggettive in cui lo stesso soggetto versa e che non sempre gli consentono questo allineamento. In particolare, è possibile che la persona non sia in possesso di strumenti necessari a comprendere “inautenticità” dei suoi atti, che non possa fare altrimenti, che, in quanto psicologicamente fragile, sia sopraffatta da turbamenti, disturbi, complessi di Edipo irrisolti, o limitata da condizioni educative, familiari, socio-culturali devianti, o ancora perché semplicemente ignori, sia inconsapevole del fatto che l’atto sia sbagliato. Dunque è probabile che non sia una persona moralmente cattiva, pur attuando un comportamento scorretto.


Per questo la chiesa propone una pastorale dell'accoglienza, che non allontani la persona in questione, bensì l'accompagni in un percorso educativo della verità, che l'aiuti a liberarsi dagli impedimenti di qualsiasi genere, per poter giungere a riconoscere e comprendere il disordine intrinseco degli atti, la conoscenza morale oggettiva, fino ad attuare un comportamento idoneo: cioè eterosessuale/non omosessuale. Perché non esistono omosessuali, ma persone eterosessuali che deviano con gli atti e comportamenti intrinsecamente disordinati.


In questo stanno le famose parole del papa: “chi sono io per giudicare i gay?” e le altre appena citate. Significano che, seppure l’omosessualità sia oggettivamente un atto intrinsecamente cattivo, quindi un peccato, seppure la società fluida sia sbagliata, anzi gassosa, non bisogna condannare le persone che incappano in questi atti o ideologie, ma salvarle. Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.

Museo dell'apicoltura, Radovljica, Public domain, via Wikimedia Commons

Non a caso, prima di rispondere alla domanda dei Dubia sulla possibile benedizione delle coppie gay, il papa ha precisato che, seppure molti elementi che accompagnano la rivelazione vadano contestualizzati e, se è il caso, superati, il nucleo delle verità rivelate in materia di fede e morale resta immutabile: tra queste quella sul matrimonio, la cui unica forma valida è tra uomo e donna. Una visione che non solo poggia sulla fede in un progetto originario di Dio: maschio e femmina li creo, andate e moltiplicatevi (cfr. Genesi), per cui, ogni atto sessuale ha valore in sé (intrinseco) in vista della procreazione (finis operis); ma addirittura, è stata sancita come modello sacramentale dello stesso rapporto Cristo-Chiesa, Sposo-Sposa. Qualsiasi atto devii da questo progetto etero-normativo, cristocentrico-ecclesiologico si pone fuori dall'ordine costituito, fuori dalla natura intesa, non solo in senso biologico, ma ontologico e antropologico, l'ordine della natura umana, il suo essere, l'essenza, come Dio li ha progettati.

Non sono d’accordo con questa visione che pretende di essere universale, cioè valida per tutti. Innanzitutto, l’idea di morale che propongo si basa su un ideale di autonomia che rifugge da ogni eteronomia. In questo caso non riferita all’amore etero (sebbene anche in questo caso, vale per chi lo vive e non come legge universale), bensì a quell’idea generale che la moralità di un atto e di una persona ricavi la sua norma e il suo significato da una fede divina rivelata e/o da un universo di valori e istruzioni prestabiliti oggettivamente. Insieme all'oggettivismo etico, rifiuto anche ogni forma di essenzialismo (l'idea di un'essenza umana immutabile, appunto, e voluta da un dio). Per me, è l’esercizio della ragione a costruire i valori oggettivi. L’oggettività è un lavoro che si attua attraverso la capacità delle donne e degli uomini di rendere valide le proprie azioni, rappresentando se stess3 come persone autonome mentre realizzano la propria identità storica, la propria personalità e le proprie relazioni, cioè autodeterminandosi.

Commissione europea, Attribution, via Wikimedia Commons

Non si deve credere con ciò che chi vive l’esperienza omosessuale, nel renderla oggettiva, debba imporla universalmente a tutti, che cioè tutti debbano essere, in un certo senso, omosessuali. Sarebbe ridicolo! Ma che, al pari degli eterosessuali, per le persone lgbtqia+, in quanto agenti autonomi, è possibile comunicare le ragioni dei loro vissuti queer o la funzionalità delle loro esperienze genitoriali e mostrarne una validità comprensibile a tutti. Validità che può arricchire polisemanticamente l'agire umano, la sessualità e/o l’amore, costruirli e ricostruirli, ampliandone il finis operis. Non è una costruzione arbitraria. Necessita di dialogo e riflessione, e pone come unico vincolo il rispetto e il riconoscimento di noi stessi e degli altri.


Alla luce di ciò, dobbiamo poter credere che, come chi un tempo basava i giudizi sulla legge del taglione, anche coloro che propongono come esclusive le convinzioni cattoliche, per noi errate, su uomo, donna, amore, matrimonio, siano, in cuor loro, moralmente buoni, auspicando per essi una maggior comprensione delle esperienze altre e una possibile conversione.

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