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Separazione delle carriere dei magistrati, non c’è motivo di stracciarsi le vesti

Separare le carriere dei magistrati? Perché no! Quale sarebbe l’attentato all’indipendenza della magistratura? Mettiamo un attimo da parte il testo di riforma costituzionale al vaglio di Camera e Senato e cerchiamo di riportare le cose al loro ordine. Poniamola in termini didattici, fondamentali. La magistratura si divide in due tronconi: giudicante e requirente. Nel processo, i primi sono quelli seduti in alto, chiamati a giudicare (ovvero, quelli che nei film americani sono detti «vostro onore», in Italia no). Gli altri sono i pubblici ministeri, l’accusa. E stanno seduti a un tavolo posto accanto a quello della difesa. Ecco: i giudicanti sarebbero – molto impropriamente – gli arbitri; mentre i requirenti sarebbero i componenti di una delle due squadre in campo. 

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Immagine da Facebook - Magistratura

Qual è l’anomalia? Che entrambi fanno parte dello stesso ordine: hanno studiato nelle stesse università, fatto i medesimi concorsi e lavorano negli stessi palazzi. Sono colleghi e, in quanto tali, si danno tutti del tu (non ci sarebbe nulla di male in ciò, per carità). Dov’è starebbe l’imparzialità in tutto ciò? Parlassimo di sport la questione sarebbe seria ma non grave; nel processo si decide però della libertà delle persone, uno dei beni più alti a cui ha diritto il cittadino. Un diritto «inviolabile», per dirla con la Costituzione repubblicana. Anche per questo ai giudici viene richiesto non soltanto di essere competenti, saggi e imparziali, ma anche di apparire come tali. 


Insomma, separare le carriere significa prevedere due concorsi d’accesso diversi e due Csm differenti. Il testo della riforma parla appunto di questo. Sdoppiare l’organo di “autogoverno” dei magistrati, quello che decide delle assegnazioni, delle promozioni e dei provvedimenti disciplinari. Entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica e con i medesimi membri di diritto. Una riforma importante, ma che non mette affatto in discussione l’indipendenza dei togati e che non tocca neanche di striscio i principi intoccabili: «inamovibilità», la soggezione dei magistrati alla sola «legge» e «l’obbligatorietà dell’azione penale». Quei principi cioè che marcano la differenza con il fascismo, quando al governo bastava spostare di sede un giudice per ottenere la sua benevolenza. 


Ognuno ha il sacrosanto diritto di dire no alla riforma, ma non di stracciarsi le vesti. In gioco c’è il diritto dei cittadini a essere giudicati con il più alto numero di garanzie disponibili. Non è più tempo per le alzate di scudo dell’età berlusconiana, siamo in un’altra fase. E un approccio meno politico al tema della giustizia potrebbe servire a dare lustro ad un ordine, quello dei magistrati, necessario per il Paese. Il caso Palamara è esploso e la fiducia dei cittadini nelle toghe ha perso quota. Non si può fare finta di niente. Riformare può significare ridare autorevolezza a una categoria che merita certamente rispetto e che ha dimostrato, lungo tutto la sua storia, la grande capacità di sacrificarsi per il bene di tutti.

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