Sarebbe un vero pensiero positivo credere «che a questo mondo esista solo una grande chiesa, che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa» (Copyright: L. Cherubini in arte Jovanotti, Penso positivo); auspicabile per una società più tollerante. Se non comportasse alcune problematiche non irrilevanti.
La soluzione politica di una «chiesa larga», seppur non intesa come quella proposta dal cantautore italiano, fu già prospettata nella storia europea durante le guerre religiose del XVI e XVII secolo: la crescente convinzione che le diverse chiese cristiane dovessero coesistere anziché autodistruggersi, fu accompagnata dall’idea secondo la quale Dio non si preoccupava delle modalità di come le persone lo adorassero purché lo facessero in buona fede entro certi ampi limiti cristiani. Di recente uno spirito ecumenico analogo si è esteso oltre i confini della cristianità. Ma per il filosofo anglosassone Bernard Williams (1929-2003), tale visione non sarebbe dissimile da quella scettica, secondo cui non vi è alcuna verità sulla validità del credo di una chiesa in opposizione a quello di un’altra. Entrambe le prospettive perverrebbero quindi alla medesima posizione: «le questioni precise della credenza cristiana non contano così tanto quanto le persone avevano pensato.» Allora non è più richiesta la tolleranza, «non più di quanto si faccia rispetto ai gusti delle altre persone in fatto di cibo.»
Secondo Williams, la pratica della tolleranza è necessaria e al contempo impossibile. Necessaria laddove gruppi differenti di persone hanno credenze (morali, politiche o religiose) in conflitto e ci si rende conto che non vi è altra alternativa; impossibile perché la tolleranza stessa sorge proprio quando il disaccordo arriva così in profondità che le parti coinvolte pensano di non poter accettare o sopportare l’esistenza l’una dell’altra; cioè «è richiesta soltanto per l’intollerabile. Questo è il problema fondamentale.» Non a caso, il saggio in cui Williams ne parla si intitola Tollerare l’intollerabile[1]. Inoltre, se chiediamo alle persone di essere tolleranti, non possiamo chiedere loro solo di «perdere qualcosa, il desiderio di sopprime o cacciare la credenza rivale», ma anche di conservare qualcos’altro, «l’impegno verso le proprie credenze, che è ciò che ha dato loro quel desiderio all’inizio.» Per sciogliere una tale tensione, altrimenti si dovrebbero relativizzare le posizioni dei gruppi in conflitto. Ma se ciò è auspicabile politicamente, comporterebbe (come visto nella storia delle guerre religiose) uno slittamento verso l’indifferenza, il che vuol dire che «se non ci si cura così tanto di ciò che ognuno crede, non c’è bisogno dell’atteggiamento della tolleranza.»
Forse, il pluralismo liberale, un modello politico che si ispira alla Costituzione statunitense, potrebbe essere un esempio «del modo in cui una società moderna può risolvere le tensioni interne alla tolleranza.» Esso afferma che, da un lato, ci sono convinzioni profondamente radicate e differenti su questioni morali o religiose, sostenute da vari gruppi all’interno della società; dall’altro, c’è uno stato ritenuto imparziale che afferma i diritti di tutti a formarsi e a esprimere le proprie convinzioni. Lo stato non viene identificato con un qualche insieme di credenze, non ne impone alcuna, né permette che uno dei gruppi imponga le proprie agli altri, benché ciascun gruppo possa naturalmente promuovere ciò in cui crede. Ma fino a che punto lo stato può essere lasciato fuori da questioni di disaccordo morale? Per esempio, in questioni come l’aborto, scrive Williams,
«lo stato non riuscirà a essere neutrale in qualunque modo agisca. Le sue leggi possono tracciare distinzioni tra differenti circostanze di aborto, ma alla fine lo stato non può eludere il fatto che alcune persone crederanno con la più profonda convinzione che una certa classe di atti deve essere permessa, mentre altre persone crederanno con convinzione analoga che quegli atti devono essere proibiti.»
C’è un celebre argomento secondo cui l’ideale liberale è in linea di principio impossibile: i detrattori affermano che uno stato liberale in realtà non sta facendo altro che imporre
«un insieme di principi (grosso modo, i principi che favoriscono la scelta individuale, la cooperazione sociale e l’efficienza economica), mentre le convinzioni che le persone hanno in precedenza profondamente avuto su questioni religiose o relative al comportamento sessuale o al significato dell’esperienza culturale si riduca gradualmente a gusti privati. In questo senso, il liberalismo sarà “soltanto un’altra dottrina settaria”: proprio l’espressione che Rawls ha usato per spiegare che cosa il liberalismo deve evitare di essere.»
Si potrebbe obiettare che chi solleva simili accuse nulla ha compreso di democrazia e pluralismo, su cui proietta invece il proprio desiderio di privilegiare un’esclusiva visione del mondo e di credenze a scapito di altre. Per ciò che concerne l’aborto, sarei pronto a sostenere che una legge che garantisce alle donne il diritto di interrompere la gravidanza, non impone le medesime pratiche alle donne che le detestano e non vogliono compierle; una legge che invece ne imponesse il divieto, negherebbe il diritto alle prime, privilegiando esclusivamente le seconde, le quali desidererebbero che nessuna/o eseguisse quel tipo di pratiche. Perché, intendiamoci, di privilegio si tratta. Concedere diritti in base all’autonomia e all’autodeterminazione significa non permettere che qualcuno/a o un gruppo più forte (la maggioranza), siano e si sentano privilegiati rispetto ad altri meno forti (le minoranze).
Mi rendo conto però che simili distinzioni – non avrebbe torto Williams – sono asimmettricamente inclinate «in direzione liberale» e non convincerebbero un critico del liberalismo, che resterebbe dell’idea che lo stato liberale stia subdolamente imponendo un insieme di atteggiamenti piuttosto che un altro. Né verrebbe risolto il disaccordo etico tra chi, in base a prospettive e visioni proprie, crede nei valori liberali fondati sull’autonomia e chi, in base ad altre prospettive e visioni, li rifiuta. Per il liberale si pone inoltre un altro problema: quello di essere coerente e tollerare e rispettare l’autonomia di chi rifiuta l’autonomia su cui si basa la tolleranza. Ma fino a che punto si può tollerare l’illiberale intollerante, desiderare che i suoi valori fioriscano, essere quindi indifferenti dinanzi all’intollerabile?
Per Williams non esistono fatti morali, criteri trascendenti, una conoscenza morale oggettiva per rispondere, o grazie ai quali si possa raggiungere una convergenza dei parlanti sui contenuti delle proprie credenze. Ammesso che una o tutte e due le parti siano disposte a raggiungerla. Se il sapere scientifico è in grado di generare conoscenze oggettive tramite esperimenti, che realizzano la convergenza tra interlocutori a proposito dei fatti di cui la scienza si occupa, in etica tale convergenza non può realizzarsi e l’accordo morale, quando si dà, se si dà, non si fonda sulla presunta oggettività dei contenuti dei giudizi[2]. Pare quindi che non vi siano chance risolutive del disaccordo etico.
Sì, talvolta le persone convergono su credenze etiche e talvolta queste credenze costituiscono conoscenza. Si potrebbe non avere alcuna difficoltà a essere d’accordo su ciò che Williams chiama concetto etico spesso, o pregnante (thick)[3], per esempio, la blasfemia, e avere conoscenza del fatto che un lavoro artistico è blasfemo. Dunque, all’interno di comunità linguistiche omogenee, i giudizi morali possono essere dichiarati veri o falsi e in linea di principio, in etica, è possibile confrontare valutazioni morali di soggetti diversi in proporzione alla somiglianza dei linguaggi morali. Questo però non significa che, se risulta possibile parlare di “verità” dei giudizi etici e di una qualche loro oggettività, ciò sarà alla stregua di una completa aderenza di quei giudizi alla realtà. La conoscenza morale dipenderà sempre da “prospettive locali o idiosincratiche” e non se ne può prescindere. Bisogna tenerne conto qualora si voglia fornire una spiegazione riflessiva del perché le persone convergono nelle proprie credenze su ciò che è blasfemo. Invece una spiegazione riflessiva del perché le persone convergono nelle proprie credenze su cos’è l’azoto, può di per sé invocare il concetto di azoto, ciò che su di esso è stato scoperto, senza dover spiegare i contesti socio-culturali in cui la scoperta è avvenuta. E questo è l’altro aspetto che rende impossibile l’oggettività in etica: il fatto che la dimensione etica sia intrinsecamente legata alle peculiarità del soggetto agente o dei soggetti agenti.
Williams vuole difendere la prospettiva del soggetto da ogni riduzione a un punto di vista impersonale: cioè non soggettivo, quindi oggettivistico o universalistico. Nel contempo, però, non cede a un tipo di soggettivismo che condurrebbe all’indifferentismo pratico, secondo cui ognuno può esprimere i propri giudizi morali ma nessuno di questi può avere valore per altri soggetti, per cui non hanno alcun rilievo per la valutazione intersoggettiva delle azioni. Questo implicherebbe un’idea di relativismo che il filosofo considera grezza, la più assurda che la filosofia morale abbia formulato e cioè che io non sono autorizzato a protestare contro le visioni morali di altri perché tutte hanno un valore solo relativo (La moralità, 2000). Ed è qui che si staglia la critica alla retorica della tolleranza.
«Se io mi oppongo a ciò che nel mio modo di vedere le cose è definito la soggezione delle donne, questo non mi lascia indifferente rispetto al merito dei codici morali che, per come sembra a me, la praticano. Non essendo indifferente, è egualmente probabile che io non sarò tollerante. Ciò non significa che io sosterrò la soppressione di queste pratiche per mezzo della forza, ma che posso fare propaganda contro di esse, incoraggiare restrizioni giuridiche e via dicendo.»[4]
Per Williams bisogna porsi in un’ottica storico-fenomenologica. Ogni disaccordo infatti si manifesta entro circostanze storiche concrete e saranno queste circostanze allora a rendere possibile una qualche comprensione comune, fra i dialoganti, delle basi sulle quali si può operare per superare il disaccordo; a dirci cioè cosa possa costituire un “accordo onorevole” fra parti impegnate nel compito etico di comunicare e convivere: qual è, in quel frangente storico, la soluzione migliore che permetta di non autodistruggerci? Quindi, seppure Williams esclude una teoria risolutiva di ogni possibile conflitto, egli sostiene altresì che, dovendo noi agire e dovendo le nostre scelte confrontarsi di fatto con quelle di altri, dobbiamo poter creare almeno un orizzonte pratico intersoggettivamente condivisibile entro cui l’accordo potrebbe essere reso possibile. In quest’ottica si deve tener conto della parte giocata
«nell’esperienza morale da considerazioni del tipo che altre idee, diverse dalle mie, sono possibili, che potrebbero essere più soddisfacenti, che qualcun altro potrebbe avere ragione, che ci possono essere spiegazioni del perché ha ragione.»[5]
Insomma distinguere fra prospettive morali di gruppi diversi come se si trattasse di prospettive di principio inconciliabili è sbagliato. In Cosa c’è di vero nel relativismo? (1987b), Williams propone un “relativismo della distanza”[6]. Quando le prospettive sono troppo distanti, tali per cui la vita morale di un gruppo non è un’opzione reale per l’altro, allora non è possibile giudicare ingiusta una società ormai sepolta nel passato o perché troppo radicalmente diversa dalla nostra. In tal caso, possiamo parlare di un confronto solo teorico e concludere che il relativismo è coerente. Ma in un confronto reale, possibile tra tradizioni “vicine”, tali che ciascuna possa considerare l’altra un’opzione concreta per la propria azione, i giudizi sono confrontabili e gruppi diversi possono arrivare a condividere concezioni simili e contigue dei concetti morali spessi (o pregnanti), tali che ciò cui essi si riferiscono sia intellegibile per i membri di entrambi i gruppi. La base del confronto è «l’assumibilità della forma di vita di ciascun gruppo da parte dell’altro, quindi una certa somiglianza pratica fra agenti.» In tal caso il relativismo è falso e sarà possibile «esprimere giudizi sulle pratiche di altri gruppi con cui condividiamo quanto basta dei concetti morali pregnanti per poterci confrontare in modo realistico.»[7]
A favorire ciò è la libera ricerca che si può sviluppare solo in un tessuto sociale vivibile, non sistematicamente esposto alla violenza e alla prevaricazione e attraverso alcuni valori che diano un significato condiviso alle azioni. Come Williams scrive ne L’etica e i limiti della filosofia: «Un processo come questo implica libere istituzioni che consentano non solo la libera ricerca, ma anche modi di vivere diversi e una certa varietà etica.» Un simile contesto può garantirlo solo un modello liberale e tollerante, malgrado i problemi che esso comporta e per buona pace dei suoi detrattori illiberali. Per cui concludo riprendendo le parole del saggio sulla tolleranza da cui ho preso le mosse: «Forse la tolleranza dimostrerà di essere stata un valore provvisorio», ma attualmente è scontato che non è ancora giunto il momento in cui possiamo farne a meno con tutte le sue difficili pratiche, le quali vanno sostenute
«da tutte le risorse che possiamo mettere insieme. Oltre alla credenza nell’autonomia, queste risorse consistono nello scetticismo contro il fanatismo e contro le rivendicazioni dei suoi difensori; nella convinzione dei mali evidenti che derivano dall’assenza di tolleranza; e certamente nel potere.»[8]
[1] B. Williams, Toleranting the Intolerable, un saggio comparso in The Politics of Toleretion in Modern Life nel 2000. Il testo da cui prendo le citazioni è la tr. it. id., Tollerare l’intollerabile, saggio 12 in id., La filosofia come disciplina umanistica, Feltrinelli, Miliano 2013.
[2] Cfr. R. Mordacci, L’etica e i limiti dell’oggettività: Bernard Williams e la praticità del pensiero morale, in G. Bongiovanni (a cura di), Oggettività e morale. La riflessione etica del Novecento, p. 48.
[3] Il professore Roberto Mordacci (op.cit.) traduce il termine thick, con “concetti pregnanti”, “densi”, “sostanziali”. Ma possiamo tradurli anche con «concetti etici “spessi”», come fa Corrado del Bò che traduce in questi termini il riferimento ai concetti riportato nell’introduzione di A.W. Moore a B. Williams, La filosofia come disciplina umanistica... op. cit.
[4] Ivi, Soggettivismo e tolleranza, in ivi, La filosofia come disciplina umanistica, op. cit., p. 110.
[5] Ivi, p. 109.
[6] Ma prima ancora ivi, Ethics and the Limits of Philosophy, Fontana, London 1985, p. 162, tr. it. di R. Rini, L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 196.
[7] R. Mordacci, op. cit.
[8] B. Williams, Tollerare l’intollerabile, in ivi, La filosofia come disciplina… op.cit., p. 160.
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