Cos’è la libertà?
«La libertà non è una cosa che si riceve in regalo. Si può vivere anche in un paese di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la dittatura. L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto, è libero. L’uomo che lotta per ciò che egli ritiene giusto, è libero. Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi; malgrado l’assenza di coercizione violenta, si è schiavi. Questo è il male, non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela, ognuno la porzione che può».
Con le parole di Pietro, il protagonista del romanzo Vino e pane, ambientato in epoca fascista, Ignazio Silone ci mostra il modo in cui si può e si deve essere liberi. Sono parole significative, nonché provocatorie, che riecheggiano il monito kantiano secondo cui viltà e pigrizia sono i motivi che spingono le persone a delegare tutori per gestione della propria vita e della cosa pubblica, pur di rimanere in un accomodante stato di minorità, rinunciando all’uso autonomo della ragione. E ricordano la famosa canzone di Giorgio Gaber: «Vorrei essere libero come un uomo. Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia. E che trova questo spazio solamente nella sua democrazia. Che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà». Per poi condurre con il noto ritornello: «La libertà non è star sopra un albero. Non è neanche avere un'opinione. La libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione».
Ma le parole di Silone rimandano anche a un altro aspetto storicamente rilevante e su cui si riflette poco. È accaduto, infatti, che proprio in regimi antidemocratici si sono risvegliate prese di consapevolezza e lotte per la democrazia, condotte da leader politici coraggiosi e visionari. Nella sua autobiografia, Lungo commino verso la libertà, per esempio, Nelson Mandela racconta la propria impressione ricevuta da bambino nell’osservare il carattere democratico delle assemblee locali che si tenevano nella casa del reggente, a Mqhekezweni:
«Chiunque lo desiderasse poteva parlare. Era la democrazia nella forma più pura. Poteva esserci una gerarchia di importanza tra gli oratori, ma tutti venivano ascoltati, sudditi e capi, guerrieri e uomini di medicina, commercianti e contadini. Proprietari terrieri e braccianti. Gli interventi si susseguivano senza sosta e le riunioni duravano molte ore. Il fondamento dell’autogoverno era che tutti gli uomini fossero liberi di esprimere la propria opinione e uguali nel loro valore di cittadini».
Se Mandela riuscì a capire la democrazia non fu certo in virtù della pratica politica che vedeva intorno a sé nel regime di apartheid instaurato da gente di origine europea. Egli arrivò a maturare una visione democratica grazie alle sue idee generali, con radici globali, sulla politica e sull’uguaglianza sociale, e grazie alla sua osservazione del dibattito pubblico a carattere partecipativo che si praticava nel suo villaggio.
È Amartya Sen a riportarne la citazione in L’idea di giustizia, in cui descrive come un’autentica pratica democratica sia favorita proprio dalla gestione partecipata – libertà è partecipazione – che avviene solo attraverso la riflessione pubblica. Per la filosofia della politica contemporanea, infatti, il modo migliore per comprendere la democrazia è concepirla come «governo per mezzo del dibattito», espressione coniata da Walter Bagehot, ma adeguatamente argomentata da John Stuart Mill.
Il difetto del dibattito su riforma costituzionale e premierato
Dall’attuale dibattito politico italiano sulla riforma della Carta e il premierato che, sta coinvolgendo tutte le forze politiche in campo, emergono aspetti critici che non possono non essere evidenziati. Si afferma che l’elezione diretta del premier, o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare, renderebbe i cittadini, chiamati a votare un leader con un programma elettorale e una linea politica eseguibili senza intoppi o ribaltoni, più coinvolti; che quindi favorisca una democrazia attiva e sana e che garantisca una certa stabilità dei governi.
Trovo alquanto bizzarro, ironico, intellettualmente disonesto e pericoloso che, a sollevare e ad avallare una simile istanza sia un esecutivo di destra, il quale – con le sue tendenze autoritarie, i suoi decreti sicurezza pregni di populismo penale, le sue politiche securitarie, quelle anti-migratorie con tanto di propaganda demagogica e nessun impegno di integrazione, con la sua allergia verso il dissenso e confronto dialettico e le sue azioni volte a intimidire e imbavagliare stampa e magistratura, a colpi di querele e discredito, manifestazioni giovanili antigovernative, a colpi di manganello, e a limitare le azioni dei sindacati e la libertà di sciopero, a colpi di precettazioni – è per antonomasia, non dico anti-democratico, ma almeno a-democratico.
Roberto Saviano - International Journalism Festival from Perugia, Italia, CC BY-SA 2.0 - Sigfrido Ranucci, Report - GeorgeOrwell1984 - CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Non ha torto Aldo Schiavone, in Sinistra. Un manifesto!, nel ritenere che appannaggio di questa destra italiana sia una certa dose di diffusa diffidenza per la vita pubblica e una certa quantità di sfiducia e pessimismo nei confronti delle sue pratiche e dei suoi apparati. Essa non accetterà mai la democrazia e le sue regole, ma vi agisce ancora come se pagasse uno scotto dovuto a qualcosa che non le appartiene fino in fondo, e che non ha contribuito a far nascere, perché non viene dalla genealogia profonda dei suoi pensieri e delle sue convinzioni, e tantomeno dalla carne e dal sangue della sua storia.
«Nel suo racconto, nei suoi atteggiamenti, prima o poi, affiora sempre la nostalgia di un passato in qualche modo pre-politico e pre-democratico, o almeno sostanzialmente a-democratico, come rifugio rispetto a fenomeni e manifestazioni da cui si sente lontana, e che invece fanno parte delle attitudini più tipiche del nostro tempo».
Già questo, basterebbe a inficiare e a rendere insincera la proposta di una democrazia indiretta con cui si propaganda il premierato e che ho già analizzato altrove. Ma mi si obietterà che tutto sommato è una proposta avanzata anche dal PD e, quel che è peggio, anche la sinistra ha avuto tendenze autoritarie sia nella sua storia in generale – come ci ha pomposamente ricordato il Lollobrigida – che in quella recente italiana. Certo, rispondo, quando però non ha saputo, né voluto fare la sinistra, adottando atteggiamenti che l’avvinavano più a pensieri e alle convinzioni di destra e che ai propri ideali, anzi tradendoli.
Ma il punto è un altro. Nonostante ci sia un dibattito politico in corso, è proprio la discussione sulla riforma costituzionale e sul premierato che parte e si muove su un presupposto errato o quanto meno su una questione mal posta: credere cioè che la democrazia diretta dipenda esclusivamente dal voto elettorale.
La democrazia come ragione pubblica
È una concezione antica e formale – fa notare Amartya Sen – intendere la democrazia in termini di urne ed elezioni, anziché inquadrarla nella prospettiva più ampia del governo per mezzo del dibattito:
«Nella filosofia politica contemporanea, l’idea di democrazia si è dilatata enormemente ed essa non è più vista come il terreno delle pubbliche votazioni, ma è intesa nei più ampi termini di quello che John Rawls chiama “esercizio della ragione pubblica”».
Nonostante ciò la democrazia è ancora oggi presentata in termini organizzativi e si concentra sui risvolti procedurali di votazioni ed elezioni.
Non che il voto non abbia un ruolo importante, quale espressione effettiva del processo di riflessione pubblica. Ma non è l’unico che conti e può essere ritenuto soltanto una parte – ancorché fondamentale – del modo in cui la ragione pubblica agisce all’interno di una società democratica. La stessa efficacia delle votazioni dipende da ciò che a esse si accompagna: libertà di parola, accesso all’informazione, libertà di dissenso. «Da solo, il voto può rivelarsi del tutto insufficiente, come hanno ampiamente dimostrato i trionfi elettorali dei tiranni alla guida di regimi autoritari, tanto nel passato quanto nel presente».
La difficoltà non risiede soltanto nella pressione politica esercitata quando si minaccia l’elettorato al momento del voto, ma anche negli ostacoli posti dalla censura all’espressione dell’opinione pubblica, nell’oscuramento dell’informazione e nel clima di paura, oltre che nella repressione degli oppositori politici e dei media indipendenti, nonché nell’assenza dei diritti civili fondamentali e delle libertà politiche. Tutto ciò, secondo il Premio Nobel per l’economia, Sen, rende affatto superfluo per le autorità al potere lo sforzo di assicurare il conformismo al momento del voto. Moltissimi dittatori hanno ottenuto enormi successi elettorali senza bisogno di operare alcuna coercizione all’atto del voto, attraverso la semplice soppressione del dibattito pubblico e della libertà di informazione, in un clima di timore e inquietudine.
Principio di maggioranza e diritti delle minoranze
Ma c’è di più. Una concezione più ampia della democrazia come riflessione pubblica, precisa l’economista indiano, che includa le procedure elettorali senza però limitarsi a esse, può riconoscere i diritti delle minoranze come componenti fondamentali di questa forma di governo, pur non prescindendo dagli orientamenti espressi dalla maggioranza.
Che la democrazia debba guardare sia al principio di maggioranza sia ai diritti delle minoranze non è una novità. Ma se la si considera da un punto di vista strettamente organizzativo, la democrazia viene spesso interamente ridotta alle procedure elettorali e quindi al principio di maggioranza a esse sottese.
Nel XVIII secolo, il marchese di Condorcet aveva messo in guardia dalla massima secondo la quale «i pochi possono essere sacrificati ai molti». Una maggioranza inflessibile, priva di scrupoli a sopprimere i diritti delle minoranze – spiega Amartya Sen – porrà la società di fronte al dilemma se privilegiare il principio di maggioranza o garantire i diritti della minoranza. Invece la diffusione di valori improntati sulla tolleranza, sul riconoscimento, sull’inclusione, è elemento essenziale per il funzionamento del sistema democratico, il quale – aspetto non irrilevante – svolge un ruolo significativo nella prevenzione della violenza settaria.
In caso di conflitti settari, le ostilità possono essere facilmente fomentate dalla demagogia degli estremisti. La democrazia, con processi politici inclusivi e interattivi, può tenere a bada il pernicioso fanatismo delle posizioni parziali e divisive. L’azione della demagogia settaria può essere sconfitta solo appoggiando valori di ampio respiro, tali da oltrepassare barriere e contrapposizioni. È di assoluta importanza, perciò, comprendere il carattere plurivoco delle identità di ciascun individuo, delle quali, per esempio, quella religiosa non è che una fra le altre. La politica democratica offre l’opportunità di fare appello a queste appartenenze non settarie e al loro valore alternativo rispetto alle distinzioni religiose.
Sen, riferendosi agli attentati omicidi avvenuti a Mumbai nell’ottobre 2008 per mano di terroristi di estrazione islamica, osserva: se dopo quei fatti,
«non ebbe luogo la tanto temuta reazione contro i musulmani dell’India, questo si deve in gran parte alla discussione pubblica che seguì quegli attacchi, alla quale sia i musulmani sia i non musulmani diedero un gran contributo. La vita democratica può senza dubbio favorire una maggiore consapevolezza delle molteplici identità che caratterizzano gli esseri umani».
Per contro, la semplice esistenza di istituzioni democratiche, concentrata sul sistema elettorale maggioritario, non costituisce affatto un’automatica garanzia di successo. Un sistema più attivo e dinamico può invece giocare una parte estremamente importante, adoperandosi affinché i problemi, le difficoltà e i risvolti umani di determinati gruppi incontrino negli altri una maggiore comprensione.
Per concludere
Il successo della democrazia non dipende soltanto dalla capacità di realizzare la migliore struttura istituzionale concepibile, ma anche e inevitabilmente dai nostri effettivi modelli di comportamento nonché dal funzionamento delle interazioni politiche e sociali. Affidarsi alle mani «sicure» di una virtuosità sancita esclusivamente per via istituzionale non porta a nulla. L’efficacia delle istituzioni democratiche, come quelle di qualsiasi altra istituzione, dipende dalla reale capacità dell’azione umana di sfruttare tutte le opportunità per dare vita a scenari adeguati.
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