Marie-Louise von Franz sostenne che per Jung le fiabe aiutano più di altri mezzi a studiare e a comprendere l’anatomia comparata della psiche perché, a differenza dei miti e delle leggende che consentono una comprensione mediata dei modelli fondamentali della psiche umana, a causa della cospicua stratificazione culturale, nelle fiabe la minor presenza di elaborazione cosciente consente un rispecchiamento meno contraffatto. Con le parole di questa studiosa, allieva e collaboratrice di Jung, che ha dedicato allo studio dell’argomento una decina di testi:
«Le fiabe sono l’espressione più pura e semplice dei processi psichici dell’inconscio collettivo. Per l’indagine scientifica dell’inconscio esse valgono perciò più d’ogni altro materiale. Le fiabe rappresentano gli archetipi nella forma più semplice, più genuina e concisa»[1].
Questa concezione mi sembra interessante e condivisibile, sebbene necessiti di una parziale specificazione. Infatti, la comparazione istituita sembra sottovalutare, a mio avviso, un dato decisivo: mentre la mitologia classica a un certo punto si è arrestata, la fiaba ha continuato il suo percorso diffusivo investendo ogni cultura. Per questo sorge la domanda: è possibile effettivamente parlare di “linearità della fiaba”? Espressione a cui io stessa ho fatto ricorso nel mio articolo introduttivo.
Proviamo a rispondere attraverso l’analisi in una fiaba a tutti noi nota.
Cappuccetto Rosso: una fiaba lineare o complessa?
Una fiaba della semplicità, come Cappuccetto Rosso, si presenta come «una pura sequenza di azioni, cronologicamente ordinata» da poter «essere resa in modo soddisfacente in qualsiasi discorso»[2]. Eppure ha promosso una tale complessità interpretativa da scoraggiare qualsiasi approccio riduttivo.
Come ricorda Valentina Pisanty, Delarue individua ben trentacinque versioni orali di Cappuccetto Rosso[3], mentre le due versioni scritte più famose, quelle di Perrault e dei fratelli Grimm, hanno addirittura finali opposti.
La versione francese – Le Petit Chaperon rouge – termina tragicamente col seguente ammonimento:
«[Il] Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone. La storia di Cappuccetto Rosso fa vedere ai giovinetti e alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce: perché dei lupi ce n’è dappertutto e di diverse specie, e i più pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e pieni di complimenti e di belle maniere»[4].
Diversamente, la versione tedesca di Cappuccetto Rosso conclude con un lieto fine:
«Erano contenti tutti e tre: il cacciatore scuoiò il lupo e si portò via la pelle; la nonna mangiò la focaccia e bevve il vino che aveva portato Cappuccetto Rosso, e si rianimò, ma Cappuccetto Rosso pensava: “Mai più correrai sola nel bosco, lontano dal sentiero, quando la mamma te l’ha proibito”»[5].
Cosicché, una fiaba come Cappuccetto Rosso, decisamente lineare secondo la mentalità comune, anche a causa della mancata problematizzazione delle diverse versioni esistenti, come mostra la Pisanty, dà origine a numerose letture, da lei così riassunte: psicoanalitica, etnologica, mitologica, lunare, chimico-metallurgica, femminile, e storico-ideologica[6].
Peraltro, persino la sola versione grimmiana innesca interpretazioni decisamente antitetiche. Secondo Fromm: «Questa fiaba, in cui le principali figure sono rappresentate da tre generazioni di donne [Cappuccetto Rosso, la Mamma e la Nonna] simbolizza il conflitto fra maschio e femmina [e, più esattamente, celebra il] trionfo delle donne che odiano gli uomini, e termina con la loro vittoria»[7].
Per Zipes, invece, la logica maschilista è all’opera sia nella versione di Perrault – che sembra trasformare Cappuccetto Rosso in una sorta di adescatrice meritevole “di essere violentata e uccisa” – che nella versione grimmiana, dove è sempre «l’uomo [esplicitamente il cacciatore e simbolicamente il lupo] a esercitare un ruolo attivo, mentre i personaggi femminili (bambina e nonna) sono relegati a una posizione del tutto passiva (catatonica)»[8].
È interessante rammentare che già Freud nel Caso clinico dell’uomo dei lupi (1914) annotava: «il lupo altro non era che il primo sostituto paterno, c’è da domandarsi se la fiaba del lupo che divora i capretti e quella di Cappuccetto Rosso celassero in sé qualcosa di diverso dalla paura del padre»[9]. Lupo cattivo che nella lettura di Musatti rappresenta un’ipertrofia persecutoria dell’istanza censoria: «Non hanno in verità torto i nevrotici di temere il Super-Io, e di ravvisare in esso il lupo cattivo, che dal nostro interno costantemente ci minaccia»[10].
Mentre Rank, considerando il trauma della nascita come il «fattore eziologico di tutti i disturbi psichici»[11], aveva collegato Cappuccetto Rosso a quello che egli considerava il prototrauma: «Abbiamo già avuto occasione di occuparci della favola di Cappuccetto Rosso, interpretandola con criteri analitici: caratteristica favola di nascita, questa, in cui non manca alcun elemento, dall’asfissia della bambina che esce dalla pancia tagliata del lupo, all’afflusso di sangue alla testa (Cappuccetto Rosso)»[12].
È solo il caso di aggiungere, che la lettura psicoanalitica più articolata – ovviamente, tra quelle a me note – di Cappuccetto Rosso è quella di Bruno Bettelheim[13], così riassunta dalla Pisanty: «Secondo Bettelheim, la fiaba in questione si occupa dei problemi che una ragazza in età prepuberale deve affrontare prima di fare il suo incontro con la sessualità adulta. La protagonista deve ancora risolvere i suoi conflitti edipici e quindi non è pronta per la sessualità»[14].
Questa ridda ermeneutica mi consente di correggere l’impressione d’immediatezza e semplicità della fiaba che sembra scaturire dalla citazione iniziale della von Franz. Ma, come ho osservato io stessa, che fiabe – e miti – abbiano un ruolo simbolico significativo per la psicanalisi è più che evidente. Di quale ruolo si tratta?
Fiabe e miti dimore trasparenti degli archetipi
Nella seconda edizione (1909) dell’Interpretazione dei sogni, Freud osserva che il simbolismo non è soltanto una modalità esclusiva del sogno ma è rinvenibile in modo più compiuto nelle forme inconsce di rappresentazione popolare, dal folklore ai miti e dalle leggende alla “sapienza dei proverbi”[15].
Nelle definizioni che accompagnano i Tipi psicologici (1921), Jung distingue tra segno e simbolo indicando col primo termine l’espressione di una relazione nota (la zolla erbosa per il terreno e la ruota alata per l’appartenenza alla società ferroviaria), e nel secondo la formulazione più chiara e caratteristica di una cosa relativamente sconosciuta[16]. Sviluppando questa distinzione fondamentale, in Psicologia analitica e arte poetica (1922), Jung accusa Freud di spacciare l’unidimensionalità degl’indizi e dei sintomi con la potenza allusiva e misteriosa dei simboli.
I simboli – incalza Jung – sono rappresentazioni enigmatiche della realtà psichica e quindi pur esprimendosi in termini unici e individuali, essi partecipano di un immaginario universale. Ne consegue, che ponendosi in relazione con i simboli e lavorando su essi, è possibile riconoscere alcuni aspetti di quelle immagini che ordinano e danno senso alle nostre vite. Ciò accade perché la loro origine può essere rintracciata negli abissi insondabili degli archetipi che attraverso i simboli trovano una più suggestiva e feconda espressione. Dimore privilegiate di queste simbolizzazioni di contenuti inconsci – prosegue Jung – sono le fiabe, i miti e le leggende[17].
Questo spiega pure l’esistenza di motivi ricorrenti nelle fiabe e nei miti appartenenti a epoche e luoghi geograficamente lontani. Sopravvivenze e riproposizioni che Jung rintraccia persino nei sogni e nei sistemi deliranti di malati di mente appartenenti a tradizioni diverse: «gli archetipi compaiono non solo nei miti e nelle fiabe, ma anche nei sogni e nei prodotti di fantasia psicotici»[18]. Meccanismo di formazione dei miti che Jung assegna alla struttura stessa della psiche, che attraverso essi si esprime e ricostruisce la realtà: «Nei miti e nelle fiabe, come nel sogno, l’anima testimonia di sé stessa e gli archetipi si rivelano nella loro naturale combinazione come formarsi, trasformarsi, eterno gioco dell’eterno senno»[19].
Non ha tutti i torti, allora, Hillman, quando afferma che i miti sopravvivono ancora oggi e, a saper interpretare le cose, quella che consideriamo sparizione vada intesa piuttosto come una metamorfosi:
«In principio, Jung ha detto che gli dei scacciati dalle nostre religioni tornano nelle nostre malattie, nei nostri sintomi. Prendiamo uno degli dei antichi, Ares-Marte. Quando accendiamo la Tv, è come se entrassimo in un tempio di Marte, con i suoi altari! Vediamo esplosioni, automobili che corrono a velocità spaventosamente alte, persone che fuggono, colluttazioni, sparatorie: l’intero moto della televisione è in se stesso velocissimo, perfino nella Tv dei ragazzi e nei cartoni animati. Il sabato mattina in America, alla Tv c'è un cartoon dopo l'altro, zzzzzz!, zzzzzz!, bang! Tutti schizzano a una velocità tremenda. E questo è il dio Marte, la cui retorica è velocità, rapidità, guizzo. Esplosioni, incendi, violenza, pistole, coltelli, passioni forti, scene di combattimento e di guerra. Rumore, morti, feriti, il campo di battaglia, l’incidente d’auto - questo è il mondo di Marte. Gran parte della televisione è dedicata a Marte, al dio Ares, perciò ecco un luogo in cui si può vedere manifestarsi uno degli dei [...] Possiamo vedere Afrodite, Venere, in tutto il porno, in tutta la pubblicità, in ogni donna nuda o seminuda, parzialmente coperta proprio come nelle pose classiche di Afrodite. Cosmetici. Moda. Copertine di riviste. La dea abita i chioschi, le vetrine dei negozi, i banchi dei fiorai. È dappertutto. Governa il desiderio commerciale di fare spese, di comprare. Entriamo alla Rinascente e qualcuno si avvicina e ci fa: “Psst! Posso farle provare questo nuovo profumo?”. Siamo attirati nel negozio come in un tempio di Afrodite - lei è lì. Potremmo andare avanti con altri dei, ma questi sono i più facili da incontrare»[20].
In conclusione, in questi brevi cenni non solo è possibile vedere all’opera il modello immaginale e il metodo prospettico e finalistico che Jung in più di un’occasione illustra, opponendolo a quello causale, esplicativo e riduttivo di Freud, ma anche che il contenuto simbolico delle produzioni popolari, dalle fiabe ai miti, indica il percorso dove rintracciare immagini archetipiche.
[1] M-L. von Franz, Le fiabe interpretate, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 (orig. 1969), p. 1.
[2] M. T. Serafini, Come si scrive un romanzo, Bompiani, Milano, 1996, p. 44.
[3] V. Pisanty, Leggere la fiaba, Bompiani, Milano, 1993, pp.109-10.
[4] C. Perrault, I racconti di Mamma Oca, Feltrinelli, Milano, 1979 (orig. 1696), p. 102.
[5] J. e W. Grimm, Fiabe, 3 voll., Mondadori, Milano, 1980 (orig. 1819), vol. I, p. 113.
[6] V. Pisanty, op. cit., pp. 79-108.
[7] E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Garzanti, Milano, 1973 (orig. 1951), p. 229.
[8] V. Pisanty, op. cit., p. 101.
[9] S. Freud, Opere (1886-1938), voll. 12, più un 13° di Complementi (1885-1938), Boringhieri, Torino, 1966-1993 (orig. 1924-1934), citazione dal vol. VII, p. 510.
[10] C. Musatti, Chi ha paura del lupo cattivo?, Editori Riuniti, Roma, 1987, p. 27.
[11] A. Carotenuto, Trattato di psicologia della personalità, Cortina, Milano, 1991, p. 69.
[12] O. Rank, Il trauma della nascita, Sugarco, Milano, 1990 (orig. 1924), p. 123.
[13] B. Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli., Milano, 1977 (orig. 1976).
[14] V. Pisanty, op. cit., p. 85.
[15] S. Freud, Opere, cit., vol. III, p. 323.
[16] C. G. Jung, Tipi psicologici, Boringhieri, Torino, 1977 (orig. 1921), p. 525.
[17] Ivi., Opere, 19 volumi in 24 tomi (indici compresi), Bollati Boringhieri, Torino, dal 1969 a tutt’oggi (orig. 1958-1970); citazione dal vol. IX, tomo I, p. 5.
[18] Ivi, p. 147.
[19] Ivi, p. 210.
[20] J. Hillman, L’anima del mondo, conversazione con S. Ronchey, Rizzoli, Milano, 1999, pp. 67-9.
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