Era il 2010 ed ero in attesa fuori dall’ufficio di quella che sarebbe diventata di lì a poco la mia relatrice della tesi di triennale. Ero nervosa e sudavo, mi avrebbe accettata? Che tema mi avrebbe dato per la tesi? Forse una qualche teoria chomskiana o un qualche approfondimento al linguaggio sportivo, trito e ritrito in quegli anni.
“Che ne dici di una tesi sui tabu linguistici?”. Io feci finta di intuire la questione al primo colpo. Dissi subito di sì, mi diede un libro vecchio come il cucco e me ne andai.
Arrivata a casa iniziai da quel libro. “Le brutte parole” si chiamava. Quel libro – che giuro le ho restituito non sia mai leggesse questo articolo – è ancora stampato nella mia testa.
Arrivava al 1969 ed esaminava il linguaggio di quei tempi che compariva su giornali e riviste, soprattutto rotocalchi femminili e la corrispondenza coi lettori. Io partivo da lì, dal 1969, e facevo la sua stessa indagine fino ad arrivare al 2009: 40 anni di posta coi lettori nelle riviste femminili mi sono letta. Tra domande assurde e risposte improbabili, venne fuori un bel malloppone di 130 pagine contenente parolacce, bestemmie e modi di dire coperti dagli eufemismi più variopinti che la mente umana possa mai generare.
Feci come la mia autrice di riferimento e divisi i tabu in classi di interdizione, vale a dire dei raggruppamenti per temi, quindi l’interdizione sessuale, quella religiosa o quella scatologica per dirne alcune. Ovviamente, c’era anche quella politica.
Dal punto di vista dell’evoluzione del linguaggio, la politica è quella che forse mi colpisce di più. È vero che su molti temi ci siamo completamente sdoganati e i tabù esistenti fino a 15 anni fa adesso non esistono neanche più e pronunciamo tutti apertamente parole tipo cacca, Dio e vagina, però sul fronte del “discorso politico” il linguaggio si è sempre mantenuto più pacato, più politicamente corretto e quindi giù a valanga di eufemismi assurdi.
Tutto questo fino alla metà degli anni ’90 quando su ogni tv italiana risuonò un urlatissimo “noi della Lega ce l’abbiamo duroooo” che fece da spartiacque.
Popolo vs. Élite
Con il passare degli anni e con l’uso – boomerissimo direi – che i politici fanno dei social media, il linguaggio usato in politica ha subito un cambiamento che è andato a erodere rapidamente tutti i tabù linguistici. Si sono così andate a delineare due fazioni ben distinte, da un lato il parlare senza filtri del popolo, dall’altro l’inclusività di un linguaggio più rispettoso e attento alle differenze di genere, riflettendo così una tensione sempre più evidente tra due visioni opposte: una che invoca autenticità e libertà espressiva, anche se offensiva e provocatoria, e l’altra che privilegia il rispetto e l’inclusione come strumenti per costruire una società più giusta e rappresentativa.
Infatti, l’uso di un linguaggio volgare e aggressivo da parte di alcuni politici italiani – senza fare nomi che tanto è facile. Un aiutino? So tutti amici di quello che ce l’ha duro (ce l’aveva) –può essere interpretato come una strategia per avvicinarsi emotivamente all’elettorato, trasmettendo un senso di autenticità e di immediatezza. Questo tipo di linguaggio ha lo scopo di polarizzare l’opinione pubblica e di costruire una narrazione di popolo contro élite, con la quale si cerca di legittimare un’identità basata su valori tradizionali in forte opposizione a cambiamenti culturali percepiti come imposti dall’alto e, quindi, innaturali.
Ma non si può più dire niente…
Questa retorica si oppone al cosiddetto politicamente corretto, che viene quindi presentato come un limite artificiale alla libertà di espressione. Il linguaggio volgare viene perciò visto come un ritorno alla verità e alla sincerità, che non si preoccupa di offendere e che vuole rifiutare qualsiasi censura ideologica. Tuttavia, questo approccio polarizzante comporta rischi significativi, poiché legittima l’uso dell’insulto e del disprezzo verso gli avversari politici, contribuendo a un clima di crescente ostilità e conflittualità sociale.
In netto contrasto con il linguaggio aggressivo, il movimento per un linguaggio inclusivo cerca di promuovere il rispetto e la rappresentanza di tutte le identità. Questa tendenza si manifesta con l’eliminazione del maschile sovraesteso (Buongiorno a tutti e tutte invece di Buongiorno a tutti), l’adozione di forme femminili per le professioni e, recentemente, l’uso della schwa (ə) per neutralizzare il genere. L’intento è quello di rendere il linguaggio più equo e accogliente, riflettendo una società che dà spazio alle differenze.
La teoria della relatività linguistica
Il linguaggio inclusivo si basa sull’idea che le parole abbiano un potere reale nel plasmare la percezione e il trattamento dei gruppi sociali. Questa prospettiva trova le sue radici nelle teorie linguistiche come quella di Sapir-Whorf, o ipotesi della relatività linguistica, che sostiene che la lingua non solo descrive la realtà, ma influenza anche il nostro modo di pensare. In altre parole, se adottiamo termini che includono sia il maschile che il femminile, o che evitano di escludere le persone non conformi al binarismo di genere, possiamo contribuire a una società in cui tutti possano sentirsi rappresentati e rispettati.
Stessa cosa al contrario. Un linguaggio triviale, aggressivo, violento non è solo uno strumento di comunicazione, ma modella attivamente la percezione del pubblico. Parole cariche di odio e insulti possono alterare la nostra interpretazione della realtà sociale e politica, incoraggiando visioni più conflittuali e polarizzate della società. Per esempio, quando un politico usa espressioni forti e provocatorie per descrivere un gruppo o un avversario – veramente, ho troppi esempi non so davvero da dove cominciare – i suoi sostenitori possono iniziare a vedere quel gruppo in termini negativi, ostili e intimidatori. In questo modo, il linguaggio violento in politica contribuisce a creare un “noi” contro “loro” che si radica profondamente nella coscienza collettiva.
La legge di Sapir-Whorf suggerisce che il linguaggio può creare realtà diverse, poiché le parole e le espressioni influenzano il modo in cui vediamo il mondo. Quando il linguaggio politico è carico di aggressività e volgarità, contribuisce a costruire una realtà in cui il dialogo pacato e rispettoso perde valore, mentre lo scontro aperto e l’insulto diventano modalità legittime di relazione. In questo senso, la retorica violenta crea una cultura del conflitto, dove i termini inclusivi o i linguaggi moderati sono spesso screditati come deboli, non autentici, insostenibili, noiosi. Ed è così che il confronto pacifico non è più efficace, ma le soluzioni si basano solo su approcci di forza e disprezzo.