Nel precedente articolo abbiamo approfondito il concetto di GIOCO psicologico e di come sia fondamentale, per ogni essere vivente, essere riconosciuti. Tale bisogno porta ogni individuo ad attivare sin dalla nascita energie al fine di ottenere l’attenzione delle persone che lo circondano. Parliamo, per la precisione, di un riconoscimento che può essere fisico, verbale o sociale. In Analisi Transazionale, questo riconoscimento viene esplicato attraverso le CAREZZE.
Eric Berne indica col termine carezza, l’unità di riconoscimento sociale, proprio per rievocare un bisogno di contatto fisico degli infanti:
«Con “carezza” si indica generalmente l’intimo contatto fisico; nella pratica il contatto può assumere forme diverse. C'è chi accarezza il bambino, chi lo bacia, gli dà un buffetto o un pizzicotto. [...] Per estensione, con la parola "carezza" si può indicare familiarmente ogni atto che implichi il riconoscimento della presenza di un'altra persona».[1]
Indipendentemente dal contesto, nella vita familiare come in quella professionale, sociale etc., è di vitale importanza per ognuno di noi essere convinti che esistiamo per gli altri, abbiamo per loro una certa importanza, qualcuno pensa a noi, siamo indispensabili per alcune persone.
Le persone sane sono in grado di darsi autoriconoscimenti positivi: “sono proprio bravo!", “sono veramente in gamba”, “non conosco questo argomento ma sono certo che posso imparare!”, ma non sempre è così poiché vi sono altre persone, tante purtroppo, continuamente alla ricerca di riconoscimenti esterni perché la loro strutturazione interna non permette loro di trovare un personale equilibrio. In funzione all’educazione ricevuta e all’ambiente familiare, alcuni hanno la tendenza a elargire e accettare carezze positive, altri purtroppo prediligono dare e procurarsi carezze negative.
Ognuno di noi quotidianamente cerca dagli altri carezze e ne distribuisce; possono essere di ordine molto diverso:
verbali e non verbali come cenni d’intesa, sguardi etc.;
piacevoli come un abbraccio, un sorriso, un complimento etc.;
spiacevoli come un insulto, una svalutazione, un rimprovero etc.;
Questo processo non è caratteristico solo dell’età adulta, ma si palesa fin da quando si è bambini.
I bambini, infatti, si concentrano nel tentativo di piacere, sedurre, essere amati e apprezzati dalle persone che fanno parte del loro ambiente; cercano in ogni modo di ottenere riconoscimenti positivi, ma se malgrado i loro sforzi l’attenzione è carente per motivi familiari e/o ambientali, cercheranno di essere riconosciuti attraverso comportamenti negativi, incuranti dei rimproveri, punizioni… che ne conseguono, ma in qualche modo soddisfatti dell’attenzione che in questo modo riescono a polarizzare.
un principio fondamentale che anima il comportamento delle persone è che qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza
Le carezze negative portano dunque un vantaggio biologico in quanto il bisogno di riconoscimento è in qualche modo tamponato. Ma purtroppo la loro intensità è molto più debole e questo induce chi le riceve a ricercarne in dosi sempre più massicce per ottenere la stessa soddisfazione che otterrebbe con una sola carezza positiva. Può sembrare assurdo, ma un principio fondamentale che anima il comportamento delle persone è che qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza. Il nostro bisogno di essere accarezzati è così importante che se non riceviamo sufficienti carezze positive, faremo in modo di avere almeno quelle negative.
Oltre ad esservi le carezze positive e negative, vi è un’ulteriore differenziazione che può essere utile conoscere per imparare a leggere le nostre relazioni: quella tra carezze condizionate e carezze incondizionate. Le prime si concretizzano in riconoscimenti o disapprovazioni per ciò che si è detto o fatto, le seconde, invece, non sono in relazione a qualcosa che si è detto o fatto, ma si riferiscono alla persona per ciò che è. Questa seconda categoria è indispensabile per la costruzione e la crescita di una persona sana, capace di amare, in quanto, in primis, è stata amata per quello che è.
Le carezze condizionate, sia positive che negative (un complimento per una relazione lavorativa, per un piatto cucinato, un richiamo per una scadenza lavorativa o scolastica non rispettata…) sono dei parametri importanti per costruire un senso di autostima efficace e funzionale e per avere consapevolezza dei propri limiti. Ricevere una carezza condizionata negativa permette di segnare il confine tra me e l’altro, di distinguere ciò che posso fare e ciò che non posso fare, in quanto i limiti sono importanti per lo sviluppo sano di un individuo.
Le carezze che, invece, sono nocive e dolorose sono quelle incondizionate negative, in quanto possono distruggere emotivamente un individuo. Questa chiarificazione è importante poiché non è possibile semplificare la differenziazione tra carezze positive come “buone” e carezze negative come “cattive”, in quanto entrambe sono importanti per la crescita personale.
La teoria delle carezze ci permette di capire perché, talvolta, le persone rimangono nelle relazioni dolorose, anche se si ricavano solo carezze negative. Se una persona ha appreso, nel suo sviluppo, che l’unico riconoscimento è quello delle carezze negative, tale schema si stabilizzerà in schemi ripetitivi che verranno messi in atto, per lo più inconsapevolmente, anche quando le condizioni esterne sono cambiate, mettendo in atto quello che viene chiamato Copione di Vita. Fino a quando non ci sarà il riconoscimento del bisogno originario, le persone cercheranno situazioni in cui potranno mettere in atto strategie che conoscono e che, in un modo o nell’altro, arrecano un “piacere”.
Un ultimo aspetto, in conclusione, su cui riflettere è la responsabilità di chi elargisce carezze, ma anche di chi le riceve. Chi dà la carezza dovrebbe essere consapevole e responsabile del messaggio esplicito e implicito che l’altra persona sta per ricevere, ma dall’altra parte, chi riceve ha la responsabilità di accettare o rifiutare quella specifica carezza ed è responsabile dell’emozione e del sentimento che proverà.
[1] Eric Berne, A che gioco giochiamo, Bompiani, Milano, 1967 (ed. orig. 1964), cit. pg. 16.
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