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Immagine del redattoreLinda Nicolino

La sessualità femminile in Freud

Prima di tentare di ricostruire una “teoria della femminilità” in Sigmund Freud cercando poi di scorgere in essa prefigurazioni o indizi di costellazioni psichiche riconducibili al complesso di Cenerentola o alla sindrome di Pentesilea è indispensabile almeno accennare alla complessità e alla proliferazione dei pronunciamenti freudiani in materia di sviluppo della psiche femminile.


La sessualità nel corpus freudiano

In primo luogo, va immediatamente osservato che, già a fine Ottocento, Freud mutuò da Wilhelm Fliess l’idea di una bisessualità umana costituzionale[1] cui restò sempre fedele[2].

A questo convincimento, che già testimonia – almeno implicitamente – la non linearità della personalità umana, bisogna aggiungere l’avvertenza, espressa nei Tre saggi sulla teoria sessuale, che il comportamento sessuale e i relativi atteggiamenti psichici non corrispondono necessariamente ai caratteri sessuali fisici. Quadro che si complica ulteriormente se si considera che nell’illustrare un caso d’isteria Freud aveva scritto: «Effettivamente, Dora era stata una piccola selvaggia fino al manifestarsi dell’“asma”; dopo era divenuta tranquilla e gentile. Questa malattia stabilì in lei il confine tra due fasi della vita sessuale, la prima a carattere maschile, la seconda femminile»[3]. E se una bambina può inconsapevolmente passare da una modalità di rapportarsi di stampo maschile a quella opposta di tonalità femminile, quest’ultimo atteggiamento può addirittura essere assunto da un’istanza; cioè, spingersi fino a coniugarsi in senso intrapsichico: «Se il padre era duro di carattere, violento, crudele, il Super-io assume da lui queste caratteristiche e, nei rapporti fra l’Io e il Super-io, si ristabilisce la passività che per l’appunto doveva essere rimossa. Il Super-io è diventato sadico, l’Io diventa masochistico, ossia in fondo femminilmente passivo»[4].


Ciò premesso, pur tra numerosi approfondimenti e ripensamenti, Freud configura un’evoluzione relativamente stabile della primitiva sessualità perversa e polimorfa a quella adulta maschile e femminile. Com’è noto, il contributo sicuramente più rilevante sullo sviluppo della sessualità umana è costituito proprio dai Tre saggi sulla teoria sessuale, in cui Freud demolisce l’ingenua concezione di un’infanzia angelica non turbata dalla sessualità:

«È opinione popolare, a proposito della pulsione sessuale, che essa manchi nell’infanzia e che si risvegli soltanto nel periodo di vita che va sotto il nome di pubertà. Ma questo non soltanto è un puro e semplice errore, bensì anche un errore gravido di conseguenze, perché è il principale responsabile della nostra attuale ignoranza a proposito delle condizioni fondamentali nella vita sessuale. Uno studio approfondito delle manifestazioni sessuali nell’infanzia probabilmente ci mostrerebbe i tratti essenziali della pulsione sessuale, ce ne rivelerebbe lo sviluppo e ci farebbe vedere come essa venga composta da varie fonti»[5].

Prende corpo qui la vasta configurazione della genesi e dello sviluppo della sessualità umana, variamente approfondita e rimaneggiata da Freud quasi fino alla morte[6] e che appare scandita in cinque fasi: orale, anale, fallica, “latente” e, infine, genitale. Sotto il profilo temporale, la fase orale si dispiega, approssimativamente, dai primi mesi di vita fino al secondo anno circa. La fase anale, che subentra intorno ai due anni, si spinge fino ai quattro. La fase fallica o edipica, in quanto corrisponde alla comparsa prima e alla conclusione poi del complesso edipico, si estende, all’incirca, dai quattro ai sei anni. La fase di latenza sessuale che sembrava riguardare tutta l’infanzia è, invece, un periodo circoscritto che si dispiega dal tramonto del complesso edipico alle soglie della pubertà; ossia, dai sei agli undici anni circa. A conclusione di queste preliminari scansioni si trova la fase genitale, a proposito della quale, alla fine del breve articolo L’organizzazione genitale infantile (1923), Freud specifica:

«Nello stadio dell’organizzazione pregenitale sadico-anale non si può ancora parlare di maschio e femmina, l’antitesi dominante è quella tra attività e passività. Nello stadio seguente di cui siamo venuti ora a conoscenza, quello dell’organizzazione genitale infantile, c’è bensì una mascolinità ma non una femminilità; i termini dell’antitesi sono il possesso di un genitale maschile da un lato e l’esser evirati dall’altro. Solo quando, nella pubertà, lo sviluppo sessuale è concluso, la polarità tra i sessi si identificherà col maschile da una parte e il femminile dall’altra. La mascolinità riunisce in sé le caratteristiche del soggetto, dell’attività e del possesso del pene, la femminilità si assume quelle dell’oggetto e della passività»[7].
Oralità passiva, complesso di evirazione e inferiorità femminile

Nello sviluppo sessuale, tracciato da Freud, e che si dispiega dall’infanzia alla pubertà, è possibile configurare tre polarità specifiche e fondamentali: quella tra attività e passività, propria della fase anale, gestita, rispettivamente, dalla muscolatura sfinterica e dalla mucosa sfinterica; quella tra il fallico e l’evirato, propria della fase fallica o edipica, che secondo Freud conosce soltanto il genitale maschile e, infine, l’opposizione propria dello sviluppo sessuale concluso, ovvero mascolinità e femminilità.

Così schematizzata quest’evoluzione oppositiva, dalla sessualità pregenitale a quella adulta, non sembra di grande utilità, ma il citato saggio sulla femminilità – appartenente alla nuova serie di lezioni introduttive alla psicoanalisi (1932) – si rivela massimamente istruttivo.


Dopo la premessa freudiana che lo scritto presenta solo fatti osservati, quasi completamente privi di aggiunte speculative, l’autore spiega che «il passaggio dalla bambina alla donna normale è più difficile e complicato, poiché comprende due compiti in più»[8] rispetto al passaggio del bambino all’adulto normale. Risulta quindi definitivamente sancita la divaricazione tra l’Edipo maschile e quello femminile[9].

In modo più articolato, se la fase orale e quella anale attestano un identico attaccamento preedipico alla madre[10], sia del maschietto che della femminuccia, la fase fallica si presenta particolarmente onerosa e complessa per la bambina, perché col trascorrere del tempo ella «deve dunque cambiare zona erogena e oggetto, mentre il maschio li mantiene entrambi»[11]. Infatti, la zona erogena maschile – dalla fase fallica a quella genitale – resta il pene, e l’oggetto dell’investimento libidico sempre la madre; invece, secondo Freud, la bambina deve passare dalla sessualità clitoridea a quella vaginale, e dall’oggetto d’amore materno a quello paterno.


Il “fattore specifico” della divaricazione evidenziata, Freud dichiara di averlo rintracciato nel complesso di evirazione: «La differenza anatomica deve pur manifestarsi in certe conseguenze psichiche. È stata però una sorpresa apprendere dalle analisi che la bambina ritiene la madre responsabile della sua mancanza del pene e non le perdona questo svantaggio». Il complesso di evirazione, specifica Freud, è attivato sia nel bambino che nella bambina «dalla vista dell’altro genitale». Il bambino in preda all’angoscia di evirazione – perché la bambina gli appare come evirata – ridimensiona le sue pratiche autoerotiche ed evolve, dopo la fase di latenza, verso la fase fallica. Diversa e drammatica la reazione e lo sviluppo della bambina che sentendosi «gravemente danneggiata, dichiara spesso che anche lei “vorrebbe avere qualcosa di simile” e cade quindi in balia dell’invidia del pene, che lascerà tracce incancellabili nel suo sviluppo e nella formazione del suo carattere e che, anche nel più favorevole dei casi, non sarà superata senza un grave dispendio psichico»[12].

Le conseguenze deleterie dell’invidia del pene, secondo l’argomentazione freudiana, sono innumerevoli: il «distacco dalla madre avviene all’insegna dell’ostilità» trasformandosi in odio, perché la bambina ritiene la madre responsabile della sua mancanza del pene e non le perdona questo svantaggio; per questa mancanza la femminilità in generale «perde di valore agli occhi della bambina»; cresce «nella vita psichica delle donne» l’invidia e la gelosia; anche la quota di narcisismo è maggiore nella donna, cosicché «per lei il bisogno di essere amata è più forte del bisogno di amare»; il Super-io, la cui parte conscia svolge la funzione di coscienza morale, nella donna «non può raggiungere quella forza e quell’indipendenza che tanta importanza hanno nella civiltà umana»; s’intensifica la vanità fisica come «tardivo risarcimento per l’originaria inferiorità sessuale»; il pudore femminile non è un sentimento genuino bensì la conseguenza della «originaria intenzione di nascondere il difetto genitale»; l’ambivalenza del rapporto emotivo con la madre – fallica e amata nella fase preedipica, evirata e castrante poi (e pertanto odiata) in quella edipica – destandosi può addirittura compromettere il rapporto coniugale («può facilmente accadere che la seconda metà della vita di una donna sia riempita dalla lotta contro il marito, così come la prima, più breve, lo era stata con la ribellione contro la madre»); la scarica di quest’ostilità comporta il sabotaggio e la deriva dell’aurorale vita coniugale, cosicché «un secondo matrimonio può facilmente riuscire molto più soddisfacente»; il «matrimonio stesso non è sicuro se non quando la moglie sia riuscita a fare del proprio marito anche il proprio bambino e ad agire da madre nei suoi confronti»; la donna risulta affetta da uno «scarso senso di giustizia»; i suoi interessi sociali sono decisamente più deboli; ridotta è pure la sua «capacità di sublimazione delle pulsioni» indispensabile, secondo gli assunti freudiani, all’evoluzione della civiltà; «rigidità e immutabilità» sono il contrassegno della vita psichica della donna adulta[13].

Tracce del complesso di Cenerentola e della sindrome di Pentesilea

In questa ricostruzione, abbiamo potuto notare che, in termini di polarità, risulta che nella fase orale, costitutiva della prima organizzazione pregenitale della libido e caratterizzata dalla suzione, Freud non individua alcuna opposizione. Per poterla rintracciare dobbiamo rifarci a Karl Abraham che in Contributi dell’erotismo orale alla formazione del carattere (1924) distingue un piacere di succhiare, fondamentalmente passivo, da quello “sadico-orale” di mordere, posto in essere dal “processo della dentizione”[14]. Notazione di particolare interesse, perché sembra prefigurare, per certi aspetti, la fondazione più originaria, in termini di vissuto personale e non archetipico, del complesso di Cenerentola; inteso, in questo particolare caso, come una sorta di fiduciosa attesa salvifica:

«In certi altri casi tutta la formazione del carattere è sotto l’influsso orale, il quale però non può essere provato se non attraverso una psicoanalisi approfondita. Secondo le mie esperienze si tratta, nei casi in questione, di persone per le quali il periodo neonatale è trascorso imperturbato ed è stato molto piacevole. Da questo periodo felice della vita hanno riportato la convinzione, profondamente radicata, che deve loro andare sempre tutto bene. Si pongono così di fronte alla vita con un ottimismo imperturbabile, che spesso li aiuta nell’effettiva realizzazione di scopi pratici. Ma anche qui vi sono varietà meno favorevoli di sviluppo. Alcuni individui sono dominati dall’aspettativa che sia sempre presente una persona buona, premurosa – dunque un sostituto della madre – da cui essi riceverebbero tutto il necessario per vivere. Questo fatalismo ottimistico li condanna all’inattività. In loro riconosciamo nuovamente coloro che sono stati viziati nel periodo dell’allattamento. Tutto il loro atteggiamento verso al vita fa riconoscere l’aspettativa che il seno materno fluisce loro, per così dire, eternamente»[15].

La riflessione sull’invidia del pene invece sembra offrire una base teorica alla sindrome di Pentesilea. Infatti, a proposito degli effetti del complesso di evirazione Freud argomenta:

«Da questo atteggiamento contraddittorio derivano tre direzioni di sviluppo. La prima conduce all’abbandono totale della sessualità: la bimba, sgomenta dal confronto col maschio, non si contenta più della clitoride, rinuncia alla propria attività fallica e in genere alla sessualità, nonché a buona parte della propria mascolinità in altri campi. La seconda direzione si attiene fermamente, lungo una linea di caparbia autoaffermazione, alla mascolinità minacciata; la speranza di riuscire ancora a ottenere un pene rimane desta incredibilmente a lungo, assurge a scopo dell’esistenza, e la fantasia di essere, malgrado tutto, un maschio spesso informa di sé lunghi periodi della vita. Anche questo “complesso di mascolinità” della donna può sfociare nella scelta di un oggetto manifestamente omosessuale. Solo un terzo sviluppo, invero assai tortuoso, sbocca nella normale strutturazione finale della femminilità, ove il padre è assunto come oggetto ed è pertanto trovata la forma femminile del complesso edipico»[16].

E in Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi (1925), Freud aveva già osservato: «Appena la bambina ha modo di osservare il pene, grosso e vistoso di un fratello o di un compagno di giuochi; riconosce subito in esso il corrispettivo, in grande, del proprio organo piccolo e nascosto, ed ecco che nasce in lei l’invidia del pene»[17]. A questo avvenimento decisivo la reazione della bambina – prosegue Freud – è profondamente diversa da quella del maschietto, a differenza di questi «il suo giudizio e la sua decisione sono istantanei. Essa l’ha visto, sa di non averlo, e vuole averlo. Da questo punto si diparte il cosiddetto “complesso di mascolinità” della donna»[18]. Ecco quindi una prefigurazione teorica plausibile della sindrome di Pentesilea.


Critica del fallocentrismo freudiano
Karen Horney 1938 - Collezione di Renate Horney Patterson, figlia di Karen Horney. Fotografia scattata da Fredy Crevanna, marito di Renate Horney Patterson. Per gentile concessione di Renate Horney Patterson, che detiene il copyright. Autorizzazione concessa dalla signora Patterson il 5 giugno 2006 sotto licenza GDFL ( numero biglietto OTRS 2006060610001761). Immagine fornita per gentile concessione di Culver Pictures, New York, NY - CC BY-SA 3.0

Come testimonia Gregory Zilboorg, tra il 1925 e il 1935, si «cominciò a discutere frequentemente ed energicamente il problema della fenomenologia e della genesi delle differenze psicologiche fra i sessi» fino a mettere «in dubbio la dottrina ufficiale freudiana sull’argomento»[19]. La critica più precoce e più efficace alla concezione freudiana della femminilità è contenuta nel celebre saggio di Karen Horney Fuga dalla femminilità (1926), nel quale, rifacendosi esplicitamente al filosofo Georg Simmel, l'autrice introduce nell’analisi il punto di vista socioculturale, che impedisce di trasformare una situazione storica in una condizione biologica. Simmel, infatti, mette a frutto la lezione marxiana che le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti che vengono spacciate come leggi universali ed eterne, e scrive:

«I requisiti dell’arte, del patriottismo, della moralità in genere e delle idee sociali in particolare, la correttezza nella valutazione pratica e l’oggettività nella conoscenza teorica, l’energia e la profondità nella vita… tutte queste sono categorie che appartengono, per così dire nella loro forma e nelle loro pretese all’umanità in generale, mentre sono maschili in tutto e per tutto nella loro configurazione storica reale. Supponendo di descrivere questi elementi, considerati come idee assolute, con la parola “oggettivi”, scopriremo che nella storia della nostra specie è valida l’equazione: oggettivo = maschile»[20].
Museo Magritte - FrDr - Opera propria - FrDr - Opera propria - CC BY 4.0

Sviluppando le conseguenze psicologiche di quest’analisi inoppugnabile, la Horney può giustamente osservare che come «tutte le scienze e tutte le valutazioni, la psicologia femminile finora è stata considerata soltanto dal punto di vista maschile». Con la conseguenza «che le donne si sono adattate ai desideri degli uomini convinte che quell’adattamento corrispondesse alla loro vera natura. Insomma, si vedono o si sono viste come proiezioni dei desideri maschili». Se ci si libera da questa mentalità maschile, ci si accorge che accanto alla differenza genitale fra i sessi che ha monopolizzato la riflessione psicoanalitica c’è anche «l’altra grande differenza biologica, e cioè i diversi ruoli di maschi e femmine nella funzione riproduttiva», e quindi l’innegabile superiorità fisiologica della donna su questo terreno. Facendo appello alla sua esperienza analitica, la Horney può sorprendentemente dichiarare: «Quando si cominciano ad analizzare gli uomini dopo un’esperienza prolungata di analisi con le donne – come è capitato a me – si rimane estremamente impressionati e sorpresi dall’intensità di questa invidia della gravidanza, del parto, della maternità, oltre che dei seni e dell’atto di allattare»[21].


Contro la Horney, che gli contesta la sopravvalutazione dell’invidia primaria del pene, assegnando l’aspirazione alla mascolinità a un’invidia secondaria del pene, generata cioè dalla struttura maschilista della società, Freud osserva seccamente: «Questo non corrisponde alle mie impressioni»[22]. Ciò che invece a me preme evidenziare è che, pur accogliendo le correzioni teoriche proposte dalla Horney, nell'invidia del pene (primaria o secondaria che sia) e nel complesso di mascolinità, teorizzato da Freud, si evince – come ho osservato nel precedente paragrafo – una prefigurazione teorica plausibile della sindrome di Pentesilea.


Note:

[1] S. Freud, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess, Boringhieri, Torino, 1968 (orig. 1950); si veda p. 48 dell’importante Introduzione di Ernst Kris.

[2] Rintracciamo questa idea in opere che vanno da Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) a Il disagio della civiltà (1929) – cfr. S. Freud, Opere (1886-1938), voll. 12, più un 13° di Complementi (1885-1938), Boringhieri, Torino, 1966-1993 (orig. 1924-1934), vol. X, p. 595, nota 2. In particolare, in Sessualità femminile (1931): «è incontestabile che la bisessualità, di cui abbiamo asserito la presenza nella disposizione di tutti gli esseri umani, si presenta con chiarezza molto maggiore nella donna che non nell’uomo», ivi, vol. XI, p. 65. E nel saggio più importante della vecchiaia, Analisi terminabile e interminabile (1937): «Abbiamo tuttavia appreso che tutti gli esseri umani sono bisessuali», vol. XI, p. 526.

[3] Ivi, vol. IV, p. 368, nota 2.

[4] Ivi, vol. X, p. 529.

[5] Ivi, vol. IV, p. 484.

[6] La problematica che mi accingo a illustrare alla luce dell’intero corpus freudiano, muove dai Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) e giunge fino alla trentatreesima lezione, La femminilità (1932).

[7] Ivi, vol. IX, p. 567.

[8] Ivi, vol. XI, p. 223.

[9] L’originaria simmetria era stata varata nel 1905 (Tre saggi sulla teoria sessuale), incrinata nel 1923 (L’organizzazione genitale infantile e Il tramonto del complesso edipico, 1924), per poi essere dissolta nel 1925 (Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi).

[10] S. Freud, Opere, cit., vol. XI, p. 226. Freud aveva già spiegato «che i primi investimenti oggettuali avvengono mediante appoggio al soddisfacimento dei grandi e semplici bisogni vitali e le modalità del governo dei bambini sono le medesime per entrambi i sessi» (ivi, p. 225). Quindi, oltre a offrire il seno, la madre è pure quella che risveglia, sia nel bambino che nella bambina, «per la prima volta, sensazioni piacevoli ai genitali» attraverso i «maneggiamenti necessari alla cura del corpo» (ivi, p. 227).

[11] Ivi, vol. XI, p. 225.

[12] Ivi, vol. XI, p. 231.

[13] Ivi, vol. XI, citazioni, pp. 228, 231, 233, 231, 238, 235, 238, 239 (si veda pure p. 72), 240.

[14] K. Abraham, Opere, 2 voll., Boringhieri, Torino, 1975 (raccoglie scritti dal 1907 alla morte: 1925); citazione dal vol. I, p. 190-202.

[15] Ivi, vol. I, p. 197.

[16] S. Freud, Opere, cit., vol. XI, p. 67 e p. 69.

[17] Ivi, vol. X, p. 211.

[18] Ibidem.

[19] Le donne e la psicoanalisi, a cura di J. B. Miller, Boringhieri, Torino, 1976 (orig. 1976), p. 94.

Ivi, p. 14.

[20] Ivi, p. 15.

[21] Ivi, pp. 17, 18.

[22] S. Freud, Opere, cit., vol. XI, p. 80.

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