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La manovra finanziaria del 2025: all’insegna dell’austerità e senza alcun progetto per il Paese

La manovra economica del 2025 è stata approvata al senato in pochissimi giorni prima della fine dell’anno. Come al solito in tempi ristretti, come al solito chiedendo la fiducia. Un governo che per ogni provvedimento di una certa importanza chiede la fiducia non deve fidarsi molto delle forze politiche che lo sostengono. Va detto che si tratta di una prassi politica che accomuna tutti gli ultimi governi, non solo questo presieduto da Giorgia Meloni. Solo che la stessa, quando era all’opposizione, lamentava, in casi analoghi, la violazione delle regole democratiche imposte dalla compressione del dibattito parlamentare.

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Giancarlo Giorgetti, Ministro dell'economia e delle finanze dell'Italia (immagine profilo Facebook

Detto questo, è l’architettura complessiva della manovra a non funzionare e a non porsi neppure un obiettivo minimamente ambizioso. Ciò è dovuto in parte dal dover rispettare le nuove regole di austerità che sono state approvate in sede europea e che questo governo, che si dichiarava apertamente sovranista, non ha fatto molto per contrastare, dimostrando una scarsa coerenza con i proclami elettorali. Tra questi proclami quello di abolire la Legge Fornero, che, se possibile, è stata addirittura peggiorata. Sempre riguardo alle pensioni, l’aumento che definirei ridicolo e offensivo dell’assegno minimo (1,8 euro al mese!).

 

Senza entrare nei dettagli dei singoli provvedimenti, una delle misure in cui si è concentrata la maggiore attenzione del governo è stata la conferma del cuneo fiscale, perché se non ci fosse stata, i lavoratori dipendenti destinatari avrebbero visto il loro stipendio ridotto di qualche decina di euro al mese. E ciò questo governo non se lo poteva permettere. È vero che si tratta di un esecutivo tra i meno amichevoli verso i 20 milioni di lavoratori dipendenti, ma la tassazione è stato sempre un argomento sensibile per qualsiasi classe sociale di questo paese, argomento su cui è possibile finalizzare un consenso trasversale tra tutte le classi sociali. Infatti, sono gli stessi lavoratori che si dimostrano contrari anche a tasse che potrebbero pesare di più sui redditi superiori, come la patrimoniale. Un esempio è stata la grande popolarità che ha avuto negli anni passati l’abolizione dell’ICI o IMU o qualsiasi altra tassa che riguardasse i possessori della prima casa. Purtroppo sulla falsariga dei governi di centro-destra, proprio quelli di centro-sinistra hanno abolito del tutto la tassa sulla prima casa togliendo anche il limite al valore dell’immobile per avere l’esenzione. Ormai anche per le case di grande valore, se risultano essere prime case, non si paga nulla.

 

Qualsiasi riduzione di tasse che apparentemente favorisce anche la categoria dei lavoratori dipendenti, si rivela un boomerang per i lavoratori stessi. Il taglio del cuneo fiscale, come l’abolizione dell’ICI, non sono a costo zero, vanno finanziati. Se questi costi non vengono coperti con altre tasse per evitare di prendere misure impopolari, la copertura si troverà sul lato della riduzione delle spese correnti e del welfare. Vedi sanità, scuola, università, trasporti (a parte le grandi opere per le quali tutti i governi hanno un debole) e rinnovo del contratto del pubblico impiego. Questo governo ha provato a giocare con i numeri affermando di aver aumentato le risorse per la sanità pubblica, che in valori assoluti è anche vero. In realtà, in rapporto al PIL, c’è stato un taglio delle spese sanitarie.

 

Insomma, è sempre lo stesso discorso che ripeto ormai da qualche anno da lavoratore dipendente e attivista sindacale in tutte le sedi possibili. Non servono i bonus fiscali, o i tagli sulle tasse della prima casa. Portano molto consenso ai governi, questo è indubbio, ma nessun beneficio alle categorie di cittadini su cui gravano il 90% delle entrate fiscali per reddito da lavoro. Questo è stato uno dei motivi per cui CGIL e UIL hanno organizzato lo sciopero generale lo scorso 29 novembre. Sciopero più partecipato del solito e, infatti, abbastanza oscurato dai media. O si trovano i soldi da qualche altra parte o il mancato drenaggio di queste risorse è a carico dei lavoratori stessi in quanto sono poi i principali beneficiari dei servizi pubblici che vengono per forza di cose tagliati. In poche parole, queste riduzioni del carico fiscale le pagano gli stessi beneficiari che si illudono di avere qualche vantaggio sulla busta paga, ampiamente compensato da una riduzione o da un aumento del costo dei servizi (per dirne una, dal primo gennaio sono scattati puntualmente i soliti aumenti dei pedaggi autostradali).   

 

Naturalmente il discorso sarebbe diverso se questi benefici fiscali fossero parte di un piano complessivo che migliora la progressività della tassazione come da dettato costituzionale (ma sta avvenendo piuttosto il contrario con la riduzione delle aliquote), e sposta la tassazione dal lavoro alla rendita. Questa sì che sarebbe, almeno in Italia, vero paradiso fiscale per certi tipi di rendite, una vera rivoluzione delle politiche redistributive a cui dovrebbe essere mirata l’azione del fisco. Ma questo cambio di paradigma dobbiamo ancora vedere qualche governo che lo metta in atto (praticamente impossibile con un governo classista come questo). In fondo di tratterebbe solo di applicare la Costituzione. Con questa manovra si va avanti con misure di piccolo cabotaggio, cercando di non calpestare i piedi a nessuno, ma non c’è alcun piano economico di grande respiro per il paese, fosse anche non condivisibile, nessun progetto che vada al li la dei piccoli favori per prendere qualche voto. Un’occasione persa.

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