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Lèvinas: Esperire il Volto dell’Altro

Totalità e Infinito [1] è uno dei testi di filosofia più noti di questo nostro tempo e indubbiamente l’opera più celebre di Emmanuel Lèvinas. In questo testo si possono davvero scorgere molte tematiche interessanti tra cui il tema del Volto. Lèvinas fonda tutta la sua teoria dell’etica della società su “il faccia a faccia con l’altro”.

È lì che è racchiuso il segreto supremo della vita: nel volto che abbiamo di fronte e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi. Per Lèvinas il Volto non è solo il colore degli occhi o la forma del naso. Queste sono solo datità. Possiamo infatti affermare che tutto ciò che ci circonda è un insieme di dati: il tavolo è marrone, di legno. Ecco questi sono dati che si possono cogliere attraverso i sensi, come la vista. Ma la vera natura del volto sta altrove. Andiamo per ordine e vediamo prima la relazione tra un “Io”, cioè il Medesimo, e l’”Altro”.

 

Che relazione sussiste tra il Medesimo e l’Altro?

 

Il problema dell’Alterità è sostanzialmente il tema principale del pensiero di Lèvinas. L’Altro è colui che io desidero, ma che nello stesso tempo non posso avere, perché tra me e l’altro desiderato c’è una distanza incolmabile che deve rimanere tale per esserci vera relazione. Il concetto di metafisica «è rivolto all’altrove, all’altrimenti e all’Altro. Nella forma più generale essa appare come un movimento che parte da un mondo che ci è familiare»[2] e va verso un mondo che è a noi estraneo. «Il termine di questo movimento è detto “Altro” in senso elevato. […] L’Altro metafisicamente desiderato non è “l’altro” come il pane che mangiamo o il paese in cui abitiamo»[3] o il mio riflesso allo specchio inteso come “altro”: con queste realtà posso nutrirmi o soddisfarmi nel mio bisogno quotidiano; tale bisogno infatti è alla base del desiderio comunemente interpretato “alterità” di quelle realtà (esempio il pane) che si “riassorbono” nella mia identità di pensante o possidente. L’Altro non è qualcosa di cui ho necessità per essere appagato. Il desiderio metafisico va oltre ciò che vedo.

 

Emmanuel Levinas - Bracha L. Ettinger, CC BY-SA 2.5, via Wikimedia Commons

Lèvinas con il termine “metafisico” intende proprio ciò che supera la dimensione prettamente fisica, perché incorporeo, e per tale motivo rimane invisibile all’Io. L’invisibilità dà luogo nell’Io all’incapacità di totalizzare l’altro e renderlo così un oggetto proprio. Il desiderio è tale perché rimane sempre tale, cioè “desiderio dell’assolutamente Altro”. È un desiderio metafisico in quanto è senza soddisfazione. Proprio perché è metafisico non c’è possibilità di essere appagato. L’invisibilità è data dal fatto, dice Lèvinas, che l’altro è invisibile, completamente separato dall’Io. Così l’Io non può totalizzare l’Altro invisibile, che per sua stessa natura deve rimanere assolutamente separato dall’Io. L’Io non è un essere che resta sempre lo stesso, ma un essere il cui esistere consiste nel ritrovare la propria identità attraverso tutti gli avvenimenti da cui lui viene influenzato. È un essere in un continuo divenire, in trasformazione, gettato in un mondo che lo condiziona, lo forma e lo trasforma.


La collettività nella quale dico “tu” o “noi” non è il plurale di Io. L’Altro di fronte agli Altri diviene sempre più uno straniero, ma che allo stesso tempo è “libero”. Su di lui non ho potere, non posso possederlo, mi sfugge sempre anche se dispongo di lui, se si trova innanzi a me. Posso solo dire che non è interamente nel mio luogo, e che è come me “senza genere” non possedendo di un concetto comune. Siamo dunque il “Medesimo” e l’”Altro”. E affermando così, tale congiunzione non indica un’addizione, non si possono avvicinare i due termini.

 

Il rapporto che li unisce è il linguaggio, attuando però dei termini che non sono contigui in questo rapporto, tale che l’Altro resta pur sempre trascendente al Medesimo. La relazione del Medesimo e dell’Altro si dispiega come discorso nel quale il Medesimo (l’autoctono) esce da sé. L’Io non è una formazione causale grazie alla quale il Medesimo e l’Altro possono riflettersi in un pensiero. Perché l’Alterità si produca nell’essere occorre un pensiero e un Io.

L’irreversibilità del rapporto può prodursi solo se il rapporto è attuato. Il pensiero e l’interiorità sono la rottura dell’essere e la produzione della trascendenza. L’alterità è possibile solo a partire da me come Medesimo.

«Il discorso, proprio per il fatto che mantiene la distanza tra me ed Atri e che è pretesa dalla trascendenza non può rinunciare all’egoismo della sua esistenza: il fatto di ritrovarsi in un discorso consiste nel riconoscere ad altri un diritto su questo egoismo e così a giustificarsi».[4]

La rottura della totalità non è un’operazione di pensiero. La rottura si ha con il vuoto che si mantiene contro il pensiero, in quanto quest’ultimo consiste proprio nel parlare. Si propone perciò di chiamare “religione” il legame che si stabilisce tra il Medesimo e l’Altro senza costituire una totalità.

 

Dunque l’Io, il Medesimo, secondo Lèvinas, assume una posizione violenta nella relazione con l’Altro. Il diverso è rappresentato avvinghiato, conosciuto dall’Io come differente. L’Io lo identifica con se stesso privandolo così della sua alterità. La spaccatura della totalità non è lavoro che può fare il nostro pensiero, né tanto meno si può ottenere una vera relazione tra il Medesimo e l’Altro tenendo conto di una semplice suddivisione tra termini che si ricordano. Il pensiero è per sua natura totalizzante, perché tende a fondare e trasformare l’Altro in oggetto, direi meglio che il pensiero cerca di costituire con l’oggetto un totale.

 

Il vero legame che, Lèvinas chiama “religione”, si istituisce tra il Medesimo e l’Altro senza erigere una totalità. Pensare l’Altro tramite le categorie del Medesimo, cioè per mezzo della logica dell’identità, vuol dire fagocitare il diverso per renderlo uguale. Il pensiero totalizzante, cioè teoretico, viene meno se l’altro si sottrae al soggetto conoscente, che cerca di “de-terminarlo” tramite i suoi strumenti di conoscenza. L’Altro è l’invisibile perché resta esterno al pensiero, perché è l’Infinito, non racchiudibile negli schemi del pensiero teoretico.

Il linguaggio risulta essere la possibilità degli interlocutori di condividere su un piano comune la loro stessa estraneità 

La relazione tra il Medesimo e l’Altro avviene, come abbiamo già detto, attraverso il linguaggio. Il Linguaggio presume degli interlocutori e la relazione dello stesso linguaggio ipotizza la «trascendenza, la separazione radicale, l’estraneità degli interlocutori, la rivelazione dell’Altro a me».[5] Allora il linguaggio risulta essere la possibilità degli interlocutori di condividere su un piano comune la loro stessa estraneità. Linguaggio vuol dire mettere in comune la trascendenza che distingue chi parla. 

Riconoscere l’Altro significa mettere in comune qualcosa e il linguaggio dà questa possibilità perché è universale. Il discorso evidentemente non va inteso come semplice dialogo tra due, ma nel discorso c’è rivelazione, qualcosa viene donato all’Altro. Il linguaggio mi consente di entrare in rapporto con quella che Lèvinas chiama la nudità del Volto. Il Volto dell’Altro si manifesta e si esprime così com’è, cioè povero. Io non posso possedere ciò che è povero o fagocitare ciò che ha fame. L’Altro è metafisico in quanto non posso possedere perché nudo e infinito. Il Volto è ciò che vi è di più nudo, di scoperto, e che dunque rivela l’alterità per ciò che è, esposta e vulnerabile. 


Ma il Volto è anche ciò che resiste a ogni dissoluzione della sua alterità attraverso una rappresentazione o un concetto. Esso è la traccia dell’Infinito, il luogo in cui si manifesta la totale alterità di Dio e la sua trascendenza. È in questo senso che il Volto diviene anche manifestazione di una parola, di un precetto, che direttamente mi interpella. È il comando “non uccidermi”, inteso come tentativo di sopprimere in qualsiasi modo l’alterità irriducibile dell’Altro. La risposta a questo appello che l’Altro mi rivolge diviene così un modo per scoprire la mia stessa identità, in quanto soggetto non chiuso in sé, ma aperto all’Altro, per l’Altro. Mi scopro responsabile dell’Altro, responsabile della vita dell’Altro che mi ricorda la sua possibilità di morire.

Il Volto dell’Altro mi chiama

In Conclusione Lèvinas con questo saggio, soprattutto con questo discorso, ci ricorda l’importanza di riconoscere l’Altro come diverso da Noi, ma allo stesso tempo simile, perché abbiamo tutti in comune la possibilità di morire. Come disse lo stesso Heidegger l’uomo è un essere-per-la-morte, cioè una caratteristica dell’uomo è proprio la morte, è nel suo essere, è nella sua natura morire. Quindi Lèvinas sottolinea questo carattere anche, inserendolo in un discorso etico, in quanto siamo esseri limitati, finiti, esseri mortali. Abbiamo nella nostra essenza la possibilità di morire e questa possibilità riusciamo a vederla nel Volto dell’Altro che mi chiama e mi chiede, appunto, di non ucciderlo.

La filosofia di Lèvinas è chiaramente sviluppata nel periodo più oscuro della storia, con chiari riferimenti alla morte, a quel Dio che avrebbe potuto fermare tutto quell’orrore, a quel Dio che molti ebrei credevano che li avesse abbandonati e lasciati morire nei modi più brutali possibili; una filosofia, quella di Lèvinas, che vuole risvegliare il senso di umanità attraverso una semplice chiamata dell’Altro, un Volto che ci parla; un’etica della responsabilità verso il genere umano, perché siamo noi responsabili se non prestiamo ascolto a quell’appello, a quella richiesta di aiuto: “NON UCCIDERMI”.


[1] Emmanuel Lèvinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano, 2004.

[2] Ivi cit. p. 31.

[3] Ibidem.

[4] Ivi cit. p. 38.

[5] Ivi cit. p. 71.

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