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«Il tempo migliore della mia vita». Michela Murgia. Estratti di un’intervista

Ha detto: «È come se avessi vissuto dieci vite.» Della sua prima vita, però, parla poco. Che bambina era?
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«Una bambina molto responsabilizzata. Ero la maggiore e i miei genitori lavoravano entrambi. Mio fratello minore è nato con delle fragilità: ha passato più tempo in ospedale che fuori, come ti giravi si era rotto un osso o ficcato un chiodo nella lingua. A nove anni avevo le chiavi di casa. Siamo cresciuti come delle bestioline felici».

Lei parla spesso di aver avuto un padre violento.

«Mio padre, ovvero la persona che avrebbe dovuto prendersi cura di me, ha tradito il suo mandato. Per molto tempo non ho capito che quello era un tradimento, perché l’unico padre che conoscevo era lui. Nella vita, hai bisogno di guardarti intorno e di vedere altri padri per capire che sei stata ingannata. Sono stata molto fortunata perché ho incontrato un altro padre, cioè mio zio, marito di mia zia Annetta. Lui e zia non hanno salvato la categoria paterna, perché ho continuato ad averne paura: nella nostra società patriarcale il modo di essere padre era quello del mio primo padre. Se fai sedere a tavola dieci donne e chiedi loro com’è stata la loro infanzia, otto ti racconteranno di un padre simile al mio. La mia esperienza che credevo eccezionale è invece molto diffusa».

C’è stato un momento preciso in cui ha detto «vado via»?

«Ricordo di averlo sempre pensato, ma sapevo che, se l’avessi fatto da minorenne, mio padre avrebbe trovato il modo di riportarmi a casa. La notte in cui me ne sono andata me la ricordo molto bene. Era il 26 dicembre del 1990 e avevo 18 anni e mezzo. Non era previsto, ma c’è stata una lite molto violenta in casa e mia madre ha ritenuto di mettere in sicurezza me e mio fratello: ci ha portati così come eravamo, in pigiama, a casa di mia zia. Quella notte ho capito che non Quella notte ho capito che non volevo tornare a casa. Mio fratello è tornato. Io mai più. Ringrazio mio padre per aver creato le condizioni di costrizione. Se ci fosse stato un limite di tollerabilità in quella situazione, io oggi sarei una persona diversa. Io sono una figlia d’anima, la famiglia queer l’ho sperimentata presto, forzatamente, e quindi ho capito che potevano esistere dei legami in grado di rispondere a logiche non del possesso tra genitori e figli. Avere avuto più madri è stata la ricchezza di vivere le “più vite” di cui le dicevo prima. Ho avuto la possibilità di essere più donne in circostanze diverse perché sono stata messa alla prova molto presto dalla diversità di queste due donne: mia madre, più rivoluzionaria ma vincolata in casa ai rapporti violenti e tossici di mio padre, e mia zia, più conservatrice, cattolica, ministro straordinario dell’eucarestia ma anche più libera rispetto al rapporto col marito e con me. Sono grata a queste due donne, a queste due madri».

Suo padre l’ha perdonato?

«No, perché non si è mai pentito. Non ha mai ammesso di avermi fatto male. Ha sempre detto che avevo capito male io. Che ero io a provocarlo. Con un uomo che non accetta di fare neanche un passo verso una verità diversa dalla sua è molto difficile, e forse non necessario, dialogare. Non accetto il paternalismo di chi mi dice “ah ma è sempre tuo padre”, perché sembra una condanna a vita. Il padre è un ruolo, non è una persona. E quel ruolo, nella mia vita, l’hanno ricoperto altri uomini meglio di lui».


[…]

Lei che cosa vuole?

«Essere felice. E non fare stare male le persone che amo. Sono molto fortunata perché ne amo molte e sono riamata in modi molto diversi, quindi sperimento una gradazione di amore molto più ampia di quella che si può sperimentare dentro una coppia. Ma se dovessi dire di quali di queste persone sono innamorata, per fortuna le dico di nessuna. Perché vorrebbe dire stabilire una gerarchia che automaticamente disegna livelli di potere nella relazione. Di una coppia si dice spesso: “Uno è più innamorato dell’altro”. E quando si negoziano le differenze, chi è più innamorato cede e si sottomette. Noi legittimiamo e romanticizziamo questa sottomissione, ma a lungo termine quel dislivello genera fratture, e di solito è la donna ad accettare la negoziazione, perché siamo abituate a considerare la relazione una cosa centrale, mentre per un uomo innamorarsi è una delle tante cose interessanti che gli capitano. L’educazione patriarcale ci spinge dal primo bambolotto che dobbiamo cullare alle Barbie e Ken con cui dobbiamo simulare i primi matrimoni, al fatto che quella cosa è il traguardo della vita. Tant’è che quando un matrimonio crolla, molte donne si sentono finite».

Quali sono stati i suoi maestri e le sue maestre?

«Tanti. E tante. All’inizio sicuramente le donne della mia famiglia, un esempio di emancipazione. La mia nonna, che è rimasta vedova da giovanissima e con quattro figli. Ne ha perso uno ma ha cresciuto i fratelli, era una famiglia allargata nel senso contadino del termine. Anche se non c’erano contadini, nonno era minatore. Il suo era un modo di esercitare il potere femminile dentro al patriarcato che per molto tempo ho scambiato per matriarcato, invece è un patriarcato 2.0 e si chiama matricentrismo, regge tutto il sistema a patto che ci sia una donna a fare il pilastro su cui si scarica tutto il peso. Mia nonna lo faceva volentieri. Diceva: le chiavi di casa le ho io. E io pensavo: sì, nonna, ma non esci mai. Esci solo per andare in chiesa. E già da piccola mi è stata maestra in questo: c’è un potere che ti imprigiona se tu accetti che quello sia l’unico potere che ti danno, e non vuoi rinunciarci perché fuori non ne vedi altri. E il modo in cui lo eserciti fa sì che tu stessa abbia le chiavi della gabbia da cui non puoi uscire. Il primo insegnamento da bambina l’ho avuto da lei: come fare a diventare potente senza essere schiava del potere. Crescendo ho avuto la fortuna di incontrare uomini e donne che mi hanno ulteriormente liberata da queste sovrastrutture. Più mondo vedi e più persone immagini di poter essere. Ricordo soprattutto due maestri nell’ambito dei miei studi teologici: don Antonio Pinna, che mi ha insegnato che la Bibbia, la gabbia più strutturata e duratura di tutte, poteva essere smontata e rimontata in modo liberatorio. L’altra è ancora una biblista, Marinella Perroni. Mi ha mostrato il femminismo dentro la fede. Sono riuscita a perdonare alla Chiesa il fatto di non essere all’altezza della parola di Dio soprattutto in relazione alle donne. La Chiesa deve fare ancora passi da gigante ma io posso starci dentro e fare in modo che magari quei passi possano andare più veloci».

Arriviamo al cuore di questo numero, la famiglia queer. Partiamo dalla sua.

«Mi piace definirla ibrida, la mia famiglia. Ho scelto come anello nuziale una rana ad altorilievo perché è un animale di terra e di acqua, sempre pronto al salto, quindi al cambiamento, rappresenta bene la queerness in natura. Non voglio chiamare la mia famiglia non convenzionale, perché sono sicura che nella realtà queste famiglie siano già diffusissime: le persone hanno esigenze che gestiscono inventandosi rapporti che possano soddisfarle. Non esiste un nome per questa creatività degli affetti: il problema è togliere gli aggettivi e declinare le famiglie finalmente al plurale. Basta dire famiglia tradizionale, la famiglia composta da mamma, papà e due bambini è un’invenzione degli anni Sessanta, ha iniziato a esistere quando la migrazione dal Meridione al Settentrione d’Italia per andare nelle fabbriche ha spostato le persone in luoghi molto più piccoli, ha separato i nonni dai nipoti e ha rotto quei legami della società contadina che invece formavano una realtà allargata, una tribù, un luogo dove le responsabilità erano divise. Nei dialetti la parola cugino e fratello è spesso comune. Perché si cresceva tutti come figli. Certo, non è nemmeno quella la famiglia queer. Perché anche quella famiglia ha il sangue come fondamento. E tutte le famiglie che hanno il sangue come fondamento sono famiglie di natura patriarcale. L’idea della famiglia queer è invece quella di fondare le sue relazioni sullo Ius Voluntatis, sul diritto della volontà. Perché la volontà deve contare meno del sangue? Perché se due o tre amiche anziane rimaste sole o vedove, coi figli già andati a vivere altrove, vogliono andare a vivere insieme, condividere le spese, la casa, avere la reversibilità pensionistica, decidere l’una per l’altra se una non può più decidere. Perché non possono farlo dentro una scatola legale, un patto sociale? In Germania già esistono queste proposte di legge, noi invece stiamo ancora a discutere quale coppia è più coppia delle altre. E chi l’ha detto che debbano essere solo due genitori? Per esempio io, Claudia e suo marito e il padre di mio figlio Raphael siamo quattro ed esercitiamo una co-genitorialità diversa, mutevole, perché negli anni abbiamo dovuto cambiare. Noi cambiamo, perché non devono cambiare i modelli di riferimento? Cosa vuol dire che c’è una famiglia migliore e una peggiore? È la norma applicata alle relazioni che non regge. E genera dolore. Tutto quello che sfugge a questi legami viene considerato atipico ma è molto più tipico di quanto non lo sia».

[…]

Ultima domanda. Ha dichiarato: «Non è vero che il mondo è brutto, dipende da che mondo ti fai». Come si fa a fare un mondo più bello?

«Ma che ne so. Io ci ho provato ogni giorno. Non mi sono mai rassegnata a pensare che non mi spettasse la felicità. Quando mi dicevano: “Tu che cosa vuoi fare nella vita”, rispondevo non lo so, ma voglio essere felice. Questo mi ha permesso di fare dieci lavori e di non smettere mai di essere felice. Io avrei potuto insegnare tutta la vita. Sarei stata comunque la persona che sono. Una cosa resta importante: riconoscere la felicità è una forma di intelligenza. Perché molte volte la felicità ti passa accanto e tu non capisci che quello è un momento felice. Perché sei troppo presa o stanca. Ho avuto fortuna perché il mio tipo di lavoro mi permette un’introspezione e delle pause in cui posso guardare me stessa dall’esterno e in cui capisco che il tempo che sto vivendo è probabilmente il tempo migliore della mia vita. Io oggi le dico: questo è il tempo migliore della mia vita. Visto da fuori non lo è: ho il cancro, ho il tempo contato, come tutti del resto, ma io ho il conto più breve. Dovrebbero essere elementi di non felicità. Ma invece non conta il cosa, conta il come. E in questo momento io posso scegliere il come».

Michela Murgia

Estratti dell'intervista di Michele Marchetti a Michela Murgia, rilasciata il 5 luglio 2023, su Vanity Fair, nel numero da lei curato. Ripubblicata dopo la sua morte, il 10 agosto, dove potrete trovarla nella versione integrale.

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