Giovanni Falcone merita di essere ricordato e onorato. Ancora oggi. Sia perché martire civile sia perché eroe tout court. Così come il giudice Paolo Borsellino, il cui destino è strettamente saldato a quello del collega palermitano a partire dalla difficilissima e travagliatissima, ma vincente, fase istruttoria del Maxi Processo. Due esempi senza se e senza ma, davanti ai quali bisogna semplicemente levarsi il cappello e stare in silenzio.
Chi muore combattendo, soprattutto se a difesa della giustizia, merita questo e altro. E in effetti, nel nome dei due giudici antimafia, è stato dedicato tanto, tantissimo. Piazze, vie, scuole, aeroporti, aule, monumenti. L’Italia, in tal senso, non si è risparmiata: sia al Nord che al Sud. Bene così. Ma in nome di cosa è stato tributato loro tanto onore? Probabilmente non ci si riflette mai abbastanza, anche perché ragionarci potrebbe condurci verso conclusioni tutt’altro che rassicuranti.
Qual è il loro merito? Quello di aver sconfitto una banda di criminali, i Corleonesi e riscattato dalla mafia parte della vita siciliana? Sì, ma non solo. Cosa nostra, in fondo, non è una organizzazione come le altre. Giovanni Falcone lo sapeva perfettamente. Sapeva, cioè, che la mafia siciliana – per dirla con lo storico Salvatore Lupo –, a differenza degli altri consorzi criminali, ha consapevolezza di sé stessa. Borsellino aveva teorizzato che Cosa Nostra esercitava sul territorio le stesse prerogative di uno Stato, imponendo il monopolio della violenza, l’esercizio fiscale delle estorsioni, proprie leggi e liturgie.
Due entità, Stato e Mafia, proiettate al potere e desiderose di essere onorate pubblicamente e, allo stesso tempo, temute. La differenza sostanziale tra le due organizzazioni è che lo Stato (la Res Publica) agisce in funzione di obiettivi che lo superano in altezza (giustizia, pace, bene comune, sicurezza, sviluppo, etc.); la Mafia, invece, opera per garantire il benessere esclusivo dei propri adepti e il loro prestigio sociale (il nome Cosa nostra, in tal senso, dice tutto).
Stato e Mafia non possono coesistere, neanche quando la Mafia decide – come ha fatto per lunghissimo tempo prima dell’avvento dei Corleonesi – di alimentarsi delle risorse di una istituzione alla stregua di un tumore, senza volerne prendere le redini ufficiali. Ma ogni cancro, si sa, nel breve o nel lungo periodo distruggerà il corpo che lo ospita e, quindi, anche sé stesso. Non è previsto altro esito appunto perché la dimensione ontologica delle realtà criminali è maligna e – come sosterrebbe sant’Agostino – votata al non-essere, a quell’egoismo che in ultimo fagocita ogni linfa vitale.
Perché questa lunga premessa, per affermare una cosa che è sotto il naso di tutti, come i baffi, e per questo impossibile da vedere se non attraverso uno specchio. Tra lo Stato e Cosa Nostra è stata combattuta una guerra difficile da definire, anomala, ma vera e sanguinante, con gli eserciti schierati sul campo e armati fino a denti. Non è stata una guerra di guerriglia, neanche civile e neanche a bassa intensità, ma c’è stata.
Di certo c’è che, entro una fase, quello scontro ha assunto la dimensione di una campagna terroristica a tamburo battente, con finalità eversive e rivendicative, segnato da bombe clamorose e una lunghissima scia di sangue dove hanno perso la vita tanti uomini in divisa dentro e fuori la Sicilia. In molti hanno rimosso un ingrediente di quella fase storica, che vale come la cifra esemplificativa di quanto stesse accadendo all’interno di una moderna nazione dell’Europa occidentale: all’indomani delle stragi di Palermo, è stato mandato l’esercito a presidiare le strade siciliana. L’operazione si chiamava “Vespri siciliani” e, per chi conosce la storia, il richiamo alla cacciata degli angioini non è affatto casuale.
Il martirologio dei caduti nella lotta alla mafia ha numeri da spavento. Anche la mafia però ha avuto i suoi morti e i suoi prigionieri, che noi consideriamo ancora oggi – e con motivazioni legittime – dei nemici. È l’eredità di una guerra mai dichiarata, ma combattuta e vinta. Ed è lecito sottolinearlo.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono due eroi. I nostri eroi. E come tali li ricordiamo, con un arredo monumentale che edifica la coscienza di un’intera nazione. Entrambi oggetto di memoria alla stessa stregua dei caduti della Prima guerra mondiale o, in particolare al Nord, dei caduti della Resistenza.
Perché – senza lesinare parole e insistendo ancora – di quella guerra ne ammettiamo le conseguenze, che risiedono appunto in quei tanti monumenti disseminati lungo la Penisola. Gli storici, un giorno, ci diranno cosa è affettivamente accaduto in Sicilia tra gli anni Ottanta e Novanta: ci spiegheranno le ragioni di un conflitto dai contorni indefiniti.
Ma, come ogni guerra, alla fine, una resa deve essere pur raggiunta da entrambe le parti. E così è probabilmente avvenuto anche allora. Perché una “Trattativa” tra Stato e Mafia – ed è stato pure dimostrato – c’è stata. Ed era inevitabile che andasse così. L’irrazionalità, dal punto di vista storico, è stata quella di voler vagliare la fase specifica che suggella la fine delle ostilità con lenti d’ingrandimento morali e giudiziarie.
Il risultato di tutto ciò è la nevrosi collettiva dettata dalle traiettorie di una nazione abituata a rimuovere tanti aspetti della propria vicenda collettiva, per poi vederli riaffiorare come degli incubi. Si dirà che la mafia esiste ancora, è vero: ma non ha le medesime capacità di allora, né politiche né militari.
La storia ci insegna che la guerra dove l’avversario non solo viene sconfitto, ma anche cancellato o annientato definitivamente, sono poche rispetto al gran numero di conflitti combattuti in ogni epoca. Accettare questo dato significa accogliere senza ingenuità il reale, ma anche che in quel determinato momento storico lo Stato ha fatto il suo dovere e ha vinto, decapitando con gli arresti eccellenti i vertici di Cosa nostra. L’ultimo è stato quello di Matteo Messina Denaro. E di una vittoria si può pure esultare senza, per questo, sentirsi attanagliati dai sensi di colpa o avvinti dalle lamentele dei profeti di sventura.
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