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Esistono i valori oggettivi?

È innegabile la constatazione dell'esistenza di diversi sistemi di valore in conflitto tra loro, dunque la variabilità dei modi di vita e dei codici morali. Come potremmo spiegarli se ammettessimo l'esistenza di valori morali oggettivi? Dovremmo ipotizzare una sorta diversità di percezioni di tali valori, una divergenza di interpretazioni di entità pur sempre univoche. Ipotesi alquanto astratta! In realtà, l'esistenza di diversi sistemi morali è il semplice riflesso dell'esistenza di diverse forme di vita, le quali si spiegano con l'ipotesi opposta: «Non esistono valori oggettivi». È questo l’argomento della relatività, il primo e non conclusivo, ma con cui il filosofo australiano, John Leslie Mackie, pone il dibattito etico sull’oggettività dei valori dinanzi a una sfida scettica.

La diversità dei sistemi di riferimento morali è il riflesso dell’esistenza di diverse forme di vita
John Leslie Mackie painting - Artistosteles, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

In generale, lo scetticismo è un atteggiamento teso a dubitare sia della possibilità di giustificare razionalmente le nostre conoscenze, sia dell’idea stessa di poter conoscere qualcosa. L’obiettivo è la critica dei dogmatismi e delle certezze e l’affermazione di un modo di procedere ispirato al dubbio metodico e costante. In particolare, lo scetticismo di Mackie è legato al campo etico e sostiene che, seppure sia possibile descrivere e distinguere nei fatti un’azione benevola da una crudele, un codardo da un coraggioso, non è possibile darne una valutazione obbiettiva in quanto manca un riferimento oggettivo a valori morali. La diversità dei sistemi di riferimento morale è il riflesso dell’esistenza di diverse forme di vita. Le persone non si impegnano in determinate pratiche, come per esempio la monogamia, perché vi aderiscono o l’approvano come valore. Al contrario, adesione e approvazione dipendono dalla partecipazione a una certa pratica sociale: «Le persone approvano la monogamia perché partecipano a un tipo di vita monogamo», scrive Mackie nel suo Etica: inventare il giusto e l’ingiusto.


Il filosofo si pone contro il cosiddetto realismo etico, che, nel Novecento, ha trovato la sua prima e più influente formulazione nei Principia Ethica di George Edward Moore. Per spiegarlo provo a fare un esempio: noi diciamo che questo è buono proprio come diciamo che questo è giallo, intendendo dire che ha la proprietà, o la caratteristica di essere giallo. Qui, però la somiglianza tra i giudizi finisce. “Buono” infatti non è una qualità come il “giallo”, una proprietà naturale di una cosa, ma una qualità peculiare che la cosa possiede in virtù del suo essere buona. Non può essere definita, né percepita come definiamo o percepiamo il giallo. Il buono semplicemente si dà a noi. Con il realismo etico Moore cerca di difendere l’autonomia dell’etica, distinguendola dalle descrizioni di fatti empirici ed evitando una riduzione naturalistica.


Mackie risponde che, intesi in questi termini, i valori oggettivi, differenti da qualsiasi altro pezzo dell’arredo dell’universo, non potrebbero che essere entità “strane”: esistono come le altre cose fattuali, ma sono di tutt’altra natura. Ma la stranezza maggiore sta nel come conoscerle. Per i realisti, si necessiterebbe di una facoltà sui generis, altrettanto diversa da quella con cui conosciamo i fatti empirici: «"uno speciale tipo di intuizione"», scrive il filosofo, che «è una risposta difettosa», ma è l’unica a cui un «oggettivista morale ben consapevole è costretto a ricorrere». Per questo i realisti etici vengono chiamati anche intuizionisti. Inoltre, a meno che questa intuizione non sia difettosa, un'idea oggettiva del bene costringerebbe chiunque al suo perseguimento, indipendentemente da ogni altra motivazione dell'azione e da qualsiasi desiderio contingente, senza dare spazio a distinzioni tra ragioni e motivazioni. Il fatto che il bene si dia e che noi lo intuiamo sono ragioni sufficienti a metterlo in pratica. Sarebbe arbitrario e strano non farlo. Poco conta se io abbia altre motivazioni per non praticarlo. L’argomento della stranezza è la seconda obiezione mackiana.

L’illusoria oggettività dei valori morali è frutto della tendenza della nostra mente a oggettivare i nostri stati d’animo
Touched by His Noodly Appendage, the parody of Michelangelo's Creation of Adam has become an iconic image of the Flying Spaghetti Monster - Niklas Jansson, Pubblico dominio, via Wikimedia Commons

Malgrado ciò, Mackie riconosce che i filosofi realisti non sbagliano nel dare un resoconto oggettivistico di come funziona il linguaggio morale ordinario. Quando le persone formulano giudizi morali, li esprimono con la pretesa di essere oggettivi. Ed è questa a essere infondata, proprio perché i valori morali oggettivi in questione non esistono. Tutti gli enunciati morali sono falsi. Quindi l’errore è nel linguaggio morale. Ed è la teoria dell’errore l’obiezione più interessante di Mackie. L’errore si rende possibile attraverso il proiettivismo: l’illusoria oggettività dei valori morali è frutto della tendenza della nostra mente a oggettivare i nostri stati d’animo, a proiettare sulle cose i nostri atteggiamenti morali. Sulla scorta di John Locke, Mackie fa un’analogia con le qualità secondarie di un oggetto. Riprendo l’esempio di prima: è solo la nostra radicale tendenza all’oggettivazione che ci fa scambiare il colore giallo, qualità secondaria, con una qualità primaria dell’oggetto che esisterebbe indipendentemente da noi, impedendoci di intenderlo come il risultato della nostra percezione. Così l’idea dell’esistenza dei valori morali oggettivi è generata da desideri, intenti, richieste sociali, che, stabilizzandosi e generalizzandosi, danno luogo a una parvenza di oggettività, che a sua volta è funzionale a rafforzare l’autorità dei codici morali.

La morale va spiegata attraverso la combinazione di desideri e di bisogni umani

La critica all’oggettivismo etico non conduce però Mackie a negare qualsiasi senso alla morale, né significa che un modello di spiegazione differente del sorgere di sistemi morali non sia possibile. E qui, il suo approccio scettico si rivela un programma di naturalizzazione dell’etica per via sentimentalista-convenzionalista.


Mackie riprende il mito platonico del Protagora, in cui si racconta che l’uomo, tra tutti gli animali, possiede meno risorse per sopravvivere. Allora gli dei gli donano le arti manuali e il fuoco, per supplire artificialmente a una naturale fragilità. Gli uomini, per difendersi dalle belve, sono costretti ad associarsi e vivere in gruppo. Ma iniziano a farsi guerra. Perciò Zeus invia Hermes perché doni loro aidòs (il «senso morale» traduce Mackie) e dike (la giustizia).

Sailko, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Il significato è chiaro: la nascita della morale va connessa alla necessità di coordinare le proprie azioni per esseri che non inclinano naturalmente a cooperare e che si trovano in una situazione in cui le risorse a disposizione sono scarse. È un espediente per rimediare a caratteristiche contingenti, non felici, della natura. La morale va quindi spiegata attraverso la combinazione di desideri e bisogni umani e la necessità di trovare forme di coordinamento per raggiungere una possibile soddisfazione. Sentimentalismo e convenzionalismo mostrano il sorgere di norme che sembrano oggettive da elementi soggettivi, senza dover ricorrere alla tesi insostenibile dell’esistenza oggettiva dei valori.


Mackie si rifà a Hobbes, pur rifiutando l’assunzione di un’antropologia totalmente negativa, e condivide l’idea di Hume di una cooperazione nata attraverso un equilibrio di interessi e da una limitata simpatia. Quindi si impegna – più di quanto ci si aspetti da uno scettico – non solo a non distruggere, ma anzi a favorire una possibile argomentazione in favore di un’etica normativa. In particolare, di una moralità rights-based.


Una teoria morale basata sui diritti riesce più coerentemente a spiegare l’etica, intesa come un sistema di convenzioni reciproche, sorte evolutivamente e radicate in sentimenti, passioni e bisogni umani. Ovviamente, uno scettico non la sosterrà come una teoria oggettivamente valida. Potrà solo raccomandarla come principio generale già insito nei sentimenti morali. Riconoscerà a tutti alcuni diritti fondamentali, il che comporta un certo grado di universalismo. Ma concepirà l’universalizzazione non come la necessità logica delle strutture del discorso morale, bensì come un processo progressivo di ampliamento e di correzione dei propri soggettivi sentimenti morali. Anche i diritti non dovranno essere interpretati come assoluti e indiscutibili. È possibile che essi entrino in conflitto, quindi si è costretti a effettuare scelte e bilanciamenti tra di essi.


Il filosofo inglese Richard Mervyn Hare obietta che questa teoria, rinunciando a un criterio valido, è costretta ad affidarsi a un confuso invito alla negoziazione, all’interazione e alla discussione. Ma sono proprio vaghezza e confusione a essere il tratto più caratteristico e la forza della moralità rights-based elaborata da Mackie.

Ogni pensiero morale critico che voglia risolvere problemi di conflitto tra interessi e ideali non può pensare di occupare un punto di vista trascendentale rispetto a quei conflitti

Secondo la consapevolezza “scettica”, diritti, norme o valori non potranno mai essere intesi come entità oggettivamente esistenti, ma solo come espressione di una moralità inventata di volta in volta per assicurare una maggiore possibilità di soddisfazione dei nostri desideri e bisogni. I diritti sono fondamentali per riconoscere spazi di distinzione tra persone. Ma sono pur sempre strumenti sottoponibili a continua revisione, attraverso la quale non si potrà mai offrire una sola risposta ai dilemmi morali. Si riconosce, insomma, a tutti in modo eguale il diritto fondamentale di vivere come si desidera. Questo diritto fondamentale va articolato nella distribuzione di diritti quali il diritto alla vita, alla salute, al perseguimento della felicità. La distribuzione di questi permette, sì, di risolvere problemi morali, ma attraverso soluzioni che tengono conto dei diversi punti di vista coinvolti, senza amalgamarli in un unico e superiore punto di vista. Ogni pensiero morale critico che voglia risolvere i problemi di conflitto tra interessi e ideali non può pensare di occupare un punto di vista trascendentale rispetto a quei conflitti. Può soltanto crescere anch’esso dal basso, cercando soluzioni di transazione e di compromesso, non affidate a un criterio ultimo definitivo. Come i diritti, anche il pensiero critico che parte da essi non potrà che ragionare su soluzioni transitorie che rifiutino criteri generali e ultimi che finirebbero per soffocare la differenza e la molteplicità dei punti di vista, degli interessi e delle passioni delle persone.

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