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“Con linee immaginarie bombardate un ospedale.” Ghali e la necessità di una svolta pacifista

Liliana Segre ha querelato l’ex diplomatica Elena Basile che l’accusava di insensibilità verso la morte dei palestinesi, paragonandola ai nazisti che abbracciavano i figli dopo aver mandato gli ebrei alle camere a gas. Paragone osceno – la senatrice a vita è stata testimone sopravvissuta a quegli orrori –, tanto quanto l’accusa di antislamismo. Ed è sull’esempio della Segre che bisognerebbe respingere anche le accuse di antisemitismo contro chi grida di cessare i bombardamenti su Gaza, da parte di chi vorrebbe mettere a tacere il dissenso.

 

È accaduto di nuovo la settimana scorsa a Ghali. Il presidente della comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi ha tuonato contro il trapper per la canzone con cui ha gareggiato a Sanremo:

Con linee immaginarie bombardate un ospedale. Per un pezzo di terra.

Dopo l'esibizione dell'ultima serata della kermesse, l'artista milanese, di origini tunisine, ha di nuovo lanciato l'appello "stop al genocidio". A irritarsi, questa volta, è stato l'ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, che su X, senza un riferimento esplicito, ha inveito contro il festival accusandolo (bizzarro a dirsi!) di diffondere odio e provocazioni. Mamma Rai-TeleMeloni si è affrettata a correre ai ripari e a prendere le distanze dalle parole del trapper con un comunicato dell'amministratore delegato Roberto Sergio, letto ieri da Mara Venier, conduttrice di Domenica in, in cui si esprimeva solidarietà per Israele. Ma non al popolo palestinese.


Ghali non è solo, però. Anche Dargen D’Amico si è unito al coro del cessate il fuoco. Un coro vasto, che va dalle manifestazioni internazionali pro-Palestina, svoltesi anche in Italia, il 27 gennaio scorso, Giorno della Memoria, nonostante i divieti; fino al documento “transatlantico” sottoscritto da oltre 800 diplomatici e funzionari americani ed europei in cui si accusa Israele di «gravi violazioni nel diritto internazionale» nell’ambito della risposta militare contro la Striscia di Gaza all’attacco di Hamas del 7 ottobre e si chiede ai rispettivi governi una reazione più decisa, per non «rendersi complici di una delle più gravi catastrofi umanitarie del secolo», con potenziali scenari di «pulizia etnica e genocidio.»

Peter Tkac, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

Queste manifestazioni di dissenso hanno sul serio a che fare con l’antisemitismo paventato dai dirigenti delle comunità ebraiche? Un timore comprensibile. Il pericolo antisemita va scongiurato. Ma il bersaglio, è quello giusto?

 

L’onda lunga del 7 ottobre – scrive Moisés Naìm (Repubblica, 30.1.24) –, ha fatto capire che l’antisemitismo è un fenomeno diffuso e internazionale; i comportamenti antisemiti normalmente ripudiati, erano solo occultati o dissimulati e il governo di Israele, invece di contare sull’appoggio dell’opinione pubblica mondiale, si è trovata di fronte a un ampio rigetto da parte di Paesi, organizzazioni e gruppi.

Donatella Di Cesare - Christian Mantuano, CC0, via Wikimedia Commons

E la sinistra? Donatella Di Cesare (Fatto Quotidiano, 2.11.23) ha contestato una certa narrazione da parte della sinistra, chiedendosi se fosse antisemita. Tale inaccettabile narrazione sosterebbe un presunto “peccato originale” di Israele, che starebbe «dove non dovrebbero stare», e considererebbe gli ebrei abili approfittatori, che «hanno fatto leva sul senso di colpa degli europei e si sono insediati lì, togliendo la terra ai palestinesi.» Una bella inversione: da vittime a carnefici. Inoltre «siccome negli ultimi anni Israele ha il volto di Netanyahu rappresenta per definizione la destra. Israele=destra. Sinistra=anti Israele.» Un’equazione inconcepibile e da scardinare. Sebbene bisogna precisare che, come ho fatto in altra sede, l’identificazione con Netanyahu sembra provenire anche dal mondo ebraico, almeno italiano. Tali accuse, identificazioni, equazioni comunque sono dannose per Israele e per la sinistra, «che mostra in questo frangente l’inconsistenza, il vuoto di pensiero, la mancanza di analisi politica.» Difendere un fronte contro l’altro non è pacifista, è antisemita e, aggiungerei (facendomi interprete della filosofa), molto poco di sinistra.

 

È inimmaginabile una sinistra senza ebraismo. Il grande progetto politico dei kibbutzin, sorto prima della Shoah, quando ondate di ebrei respinti dall’Europa, sono tornati lì dove sono sempre stati, aveva come scopo la fondazione di «comunità socialiste dove praticare uguaglianza, giustizia, accoglienza.» Di Cesare menziona anche Umberto Terracini, Enzo Sereni. È, in realtà, la fondazione di uno Stato nazionale a creare problemi. «Per me ogni Stato nazionale discrimina, tende alla violenza, a diventare etnico.» In questo senso, pur ritenendo puerile e fuorviante l’altra equazione, Israele=oppressore, palestinesi=oppressi, la filosofa definisce «gretta e ottusa» la guida di Netanyahu, tanto quanto responsabile «il protonazionalismo palestinese.»

Nella prima immagine, Enzo Sereni; nella seconda, Umberto Terracini (Senato della Repubblica, Public domain, via Wikimedia Commons).

La vacuità di questa postura politica messa a nudo dal “terremoto del 7 ottobre” è stata analizzata dal già citato Moisés Naìm: se Hamas si dedicava a trafugare ogni dollaro o euro dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea o dal Qatar per armare e addestrare i suoi terroristi, Bibi Netanyahu, ossessionato a consolidare il potere, usava ogni sforzo per indebolire i contrappesi istituzionali che potevano metterlo a repentaglio. Hamas costruiva reti chilometriche di tunnel sotterranei. Netanyahu dedicava le sue energie a espandere insediamenti in Cisgiordania per mano delle voci più estremiste e scioviniste della sua coalizione, lasciando inascoltati gli allarmi dei servizi di sicurezza, che l’avvertivano che Hamas stava addestrando uomini. Indifferenza motivata dal desiderio di mantenere divisa Gaza e Cisgiordania che necessitava del controllo di Hamas sulla prima. Quindi il vecchio antisemitismo dissimulato ha ricevuto nuova linfa sia dal terrorismo di Hamas che dagli errori del governo israeliano che ha perso progressivamente la sua natura democratica. Minare la democrazia è il vero pericolo ed è legittimo chiedersi come si arrivi a queste politiche.

 

Jason Stanley, in Noi contro loro. Come funziona il fascismo, ha osservato che nella storia i gruppi oppressi si sono ribellati alla discriminazione organizzandosi in movimenti che rivendicano con orgoglio le loro identità minacciate. Fa riferimento a veri nazionalismi (afroamericano, indiano, keniota, al Black Lives Matter), tra cui quello ebraico, propugnato in Europa, dal sionismo contro la diffusione dell’antisemitismo.

 

Ma c’è differenza tra nazionalismo scaturito dall’oppressione e quello a puro scopo di dominio. L’obiettivo del primo è l’uguaglianza, il nazionalismo “fascista” – come lo definisce Stanley – ripudia questo ideale di democrazia: è un nazionalismo al servizio del dominio, mira a preservare, mantenere o conquistare una posizione al vertice di una gerarchia di potere e di status. Se non si presta la dovuta attenzione ai cambiamenti nell’esercizio del potere, c’è il rischio che un nazionalismo egualitario si tramuti in forma oppressiva.

 

Quando i gruppi al potere indossano la maschera del nazionalismo degli oppressi, o di un’autentica oppressione del passato, per imporre l’egemonia, la stanno usando per compromettere l’uguaglianza. Così, scrive Stanley, quando la destra israeliana usa l’indiscusso passato di oppressione degli ebrei per affermare il dominio ebraico sulle terre e sulle vite dei palestinesi, sta sfruttando la vittimizzazione per oscurare la contraddizione tra la lotta per il pari rispetto e quella per il dominio. L’oppressione è una forte motivazione per l’azione, ma le domande su chi la sta esercitando, in che contesto e contro chi, rimangono sempre cruciali. Il vittimismo è un’emozione trascinante che maschera la contraddizione tra movimenti nazionalisti egualitari e dispotici. Della stessa pasta è Hamas, altra formazione reazionaria che con le sue azioni rischia di far passare la legittima emancipazione palestinese per una terribile islamizzazione.

The White House from Washington, DC, Public domain, via Wikimedia Commons

Volgendo lo sguardo sull’Italia, le parole di Stanley mi hanno fatto riflettere anche sul legittimo ricordo del dramma delle foibe, così tanto voluto dal nostro governo di destra. Mi sono chiesto se oltre al sincero desiderio di commemorare le vittime, non ci sia il sottile rischio di scivolare in dinamiche di potere simili a quelle descritte dal filosofo (seppur senza risvolti terroristici, s'intende). Non vogliamo essere paranoici. Ma bisogna vigilare. Per giunta, le modalità con cui queste destre stanno svolgendo la loro “marcia su Bruxelles” e le alleanze che stringono in vista delle europee di giugno, un certo sospetto lo alimentano.

 

Giovanni Orsina (Stampa, 29.1.24), riflettendo sul veemente moto di protesta degli agricoltori, che sta attraversando tutta l’Europa, ha osservato che la questione climatica è destinata a diventare sempre più dirimente nella dialettica fra destra e sinistra e che, in tal caso, sarà inevitabile che la protesta cada a destra. «Resta da capire quale destra.» Quella radicale, movimentista, in opposizione frontale all’Europa o quella che pur riuscendo a comprendere la rabbia degli agricoltori, sa portare le istanze, in un dialogo costruttivo, nelle istituzioni nazionali e comunitarie?

 

Orsina risponde che solo una più stretta collaborazione fra Partito popolare europeo (Ppe) e conservatori europei (Ecr) favorirebbe un diverso ambientalismo, meno astratto e ideologico. L'ipotesi sarebbe auspicabile, se non fosse che l’Ecr (la destra presumibilmente dialogica), sotto la guida di Meloni, sta facendo discutibili alleanze con formazioni di destre estreme: dalla francese Reconquête di Eric Zemmour, all’ungherese Fidesz di Viktor Orbán, aprendo a una possibile partecipazione di Marine Le Pen dopo le elezioni. Alleanze che rendono difficili i rapporti con l’imbarazzato Ppe e fanno scricchiolare il bis di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, con l’ultimatum di Socialisti e Liberali: «Mai con la destra.» Il lavoro di rinnovo del mandato, per cui Von der Leyen aveva scommesso sull’appoggio della premier italiana, si sta rivelando un boomerang.

Éric Zemmour - Anh De France, CC0, via Wikimedia Commons

Putiniano, xenofobo, misogino, omofobo, islamofobo, accusato di antisemitismo, Zemmour, che vuole riabilitare il collaborazionista Pétain, insinua che forse Dreyfus non era innocente e proponeva l’annessione del Nord Italia alla Francia, è un partner naturale di Orbán che governa un Paese in cui, per dirla con Edith Bruck, «dominano la destra, l’antisemitismo e tutto il male possibile» (Repubblica, 8.3.24).

 

La scrittrice ungherese, altra autorevole testimone della Shoah, commenta il trattamento di Ilaria Salis nelle carceri e nel tribunale magiari: manette ai polsi, schiavettoni alle caviglie, cintura di cuoio in vita da cui parte un guinzaglio. L’attivista italiana è stata arrestata il 10 febbraio 2023 a Budapest durante gli scontri con gruppi neonazisti che ogni anno – anche ieri – arrivano da tutta Europa, si riversano per le strade della capitale e celebrano il giorno dell’onore: un appuntamento che risale agli anni ’90, in cui si commemorano le gesta delle SS che combatterono contro l’Armata Rossa. Ilaria è accusata di aver aggredito due di loro, procurando ferite guaribili in 5 e 7 giorni e di far parte di un’associazione antifascista nota come Hammerbande. Per questo rischia 20 anni di carcere. «Una cosa dolorosa, vergognosa per un’Europa cosiddetta civile» ha detto Edith Bruck, non meravigliata per le poche azioni compiute dal nostro governo, che non ha fatto esplicita richiesta di liberazione. «Perché la ragazza è antifascista… Essere antifascisti non è un delitto. Essere fascisti sì.»

 

Se a questo uniamo gli inni al duce gridati nella questura di Budapest, riportati da Salis nelle lettere dal carcere – “Antifa? Duce! Mussolini!”. Il controllo totale da parte di Fidesz di Orbán dei media pubblici, statalizzati a fine propagandistico. L’aver cacciato giornalisti sgraditi o cercato di distruggerne la reputazione. L’aver colpito le grandi testate e messo a bando quelle indipendenti. Come testimonia Márton Gergely (Repubblica, 3.2.24), ex vicedirettore del quotidiano magiaro, Népszabadság, non sopravvissuto all’epurazione orbaniana. Possiamo non chiederci verso quale Europa, Meloni e il suo Ecr ci stanno conducendo? La stessa Meloni che ha Netanyahu come «partner prediletto» (cito Gad Lerner, Fatto quotidiano, 14.12.23) e che a fatica è riuscita ad ammettere i crimini nazi-fascisti in riferimento all’Olocausto, ma non la distruzione nazifascista della democrazia, libertà di stampa, dialettica politica e parlamentare, inibendo ogni possibile forma di dissenso e denuncia quando quei crimini si sono manifestati e divenuti leggi.

 

Dunque, di nuovo: i dirigenti delle comunità ebraiche, nel tentativo di scongiurare l’antisemitismo, hanno scelto gli alleati giusti e azzeccato il bersaglio, decidendo di mettere a tacere il dissenso contro le politiche di Netanyahu e gli appelli internazionali per il cessate il fuoco e la pace?


 

Ghali ha replicato su Instagram: «È necessario prendere una posizione perché il silenzio non suoni come un assenso.» Politicamente, possiamo dire che è auspicabile un netto cambiamento di rotta: la ricerca di un’alternativa pacifista, finora negata dagli Usa e dai vertici Ue, quasi che la guerra fosse un destino ineluttabile per la difesa dei “valori occidentali”, per riprendere Gad Lerner, che lancia un appello al maggior partito di sinistra italiano e alla sua leader Elly Schlein.

 

È solo attraverso il cessate il fuoco, la revisione delle funzioni della Nato, la proposta di una maggiore autonomia dell’Europa nei rapporti transatlantici, l’abbandono di un atlantismo sbandierato da due anni, che

«il campo democratico potrà impersonare in Italia una vera alternativa alla destra, condannata dalla sua disdicevole vicenda novecentesca a cercare legittimazione nella sola sudditanza atlantica. E condannata altresì ad alimentare involontariamente il nuovo antisemitismo (cioè la colpa della quale vorrebbe emendarsi) vincolando la sorte del popolo ebraico e di Israele al futuro senza sbocchi del sionismo di destra, etnocentrico e messianico. […] Misurarsi con la necessità di un nuovo ordine mondiale, capace di armonizzare al suo interno il declino della supremazia occidentale senza rinunciare ai valori della laicità, della democrazia e della convivenza pacifica, è l’atto di coraggio che oggi si rende necessario.»

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