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Chi governa “in nome del popolo” disprezza il pluralismo. Il paradosso del populismo

Può sembrare paradossale ma proprio un governo che pretende di parlare “in nome del popolo” si mostra diffidente verso il pluralismo e sprezzante verso il dissenso. Limiterebbero l’unità della volontà popolare, è il ragionamento. Si tratta di una concezione di governo ipermaggioritario caratteristico di una democrazia populista.

Nel loro testo dal titolo Democrazia afascista, il critico letterario Gabriele Pedullà e la politologa Nadia Urbinati definiscono la democrazia moderna, costituzionale e rappresentativa, come «un ordine politico complesso, adatto a governare una società anch’essa assai complessa, e che per questo deve potersi avvalere del pluralismo delle opinioni, con soluzioni che provengono da interpretazioni e visioni diverse e spesso contrastanti.» Su questa definizione gli autori tracciano la differenza sostanziale con la concezione impermaggioritaria. In quanto «la democrazia genera e vive di dissenso, promettendo di non assegnare a nessuna parte un trattamento privilegiato, neppure nel caso in cui questa parte raccolga la maggioranza dei consensi elettorali e dell’opinione. Non è dunque il potere della maggioranza che qualifica questo governo, ma il principio della maggioranza.» (corsivo degli autori).

 

Una democrazia rappresentativa non considera il popolo come massa unitaria, ma come principio legittimante che affida l’esercizio del potere a più attori contemporaneamente (istituzioni, gruppi politici, persone), distinguendosi sia dalle dittature che dalla democrazia diretta. La sua dimensione normativa (principi e promesse) e quella descrittivo-empirica (istituzioni e scelte politiche) determinano quel difficile processo di bilanciamento nel quale le parti politiche, la destra e la sinistra, si distinguono nell’arena politica come diverse interpretazioni delle norme comuni. Il dissenso tra di esse è vitale per una democrazia che si regge sull’eguale diritto dei cittadini di formare ed esprimere le proprie opinioni (ed eventuale dissenso) e dare significato e forza alla partecipazione elettorale.

 

A questo si interconnette l’avvicendamento delle maggioranze che trova più compiuta realizzazione nelle democrazie parlamentari che in quelle presidenziali. «Ogni governo – spiegano Pedullà e Urbinati – deve sentire, mentre governa, che il suo potere è limitato e sempre a rischio.» Sbaglia chi, a sostegno di una democrazia plebiscitaria o populista, pensa che questo sia indice di debolezza, che cioè un governo non debba sentire il fiato sul collo dell’opposizione per realizzare in assoluta libertà quanto si è impegnato a fare per sottomettersi al giudizio degli elettori alla fine del mandato. Tra un voto e l’altro non c’è spazio solo per il governo e per la sua egemonica opinione. Anzi, la democrazia costituzionale è strutturalmente predisposta a creare un potere limitato e dei contropoteri non solo istituzionali, «perché riposa su una società che è liberale nelle relazioni civili ed economiche e pluralista negli interessi e nelle opinioni.»

 

Nessuna decisione politica può pretendere di essere risolutiva o definitiva: il suffragio non è un indicatore epistemico che assicura la qualità delle decisioni. Il voto è un diritto che ne assicura la legittimità, la stabilità. Questo fa sì che possiamo anche obbedire a leggi che non condividiamo e che sono espressioni della maggioranza. Ma a due condizioni: 1) chi governa deve sottomettersi alla legge come ogni cittadino; 2) coloro che non approvano le decisioni della maggioranza devono essere liberi di contestarle e fare quanto la costituzione consente per cambiarle o rovesciare la maggioranza. La ricchezza e l’articolazione del foro delle opinioni e di discussione non tolgono arbitrarietà al voto, né rendono più competenti i cittadini-elettori e più sagge le loro decisioni. La base della democrazia non è la certezza di buone decisioni, ma la libertà politica. La destra e la sinistra possono anche impegnarsi e promettere ai cittadini il governo che fa meglio gli interessi della società, ma la valutazione dei cittadini, come quella dei loro rappresentanti politici, al momento della partecipazione alla vita pubblica e del voto è parziale.

 

Ciò che non deve essere parziale è l’impegno delle parti a non modificare in corso d’opera le regole per impossessarsi del potere e ridurre l’incisività dell’azione dell’opposizione. L’ambizione tirannica è propria dell’esercizio del potere, ogni maggioranza vuole governare più a lungo e con più agio possibile. Una buona costituzione democratica deve riuscire a neutralizzare quest’ambizione. Un obiettivo etico che si ottiene quando l’abito democratico si stabilizza. Solo con la pratica e il tempo le norme democratiche rendono i cittadini più democratici.

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