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Bergson: tempo della scienza e tempo della coscienza

Sicuramente vi è capitato fare esperienza dell’attesa, aspettando il vostro turno rispettando una fila interminabile o attendendo un evento in particolare, un appuntamento importante. Ecco che quel tempo, che qui mi permetto di chiamare “tempo dell’attesa”, sembra quasi fermo o che comunque sembra essere molto lento nel suo fluire e vediamo quell’evento quasi irraggiungibile, come se non arrivasse mai quel momento e non vediamo l’ora che arrivi, quasi impazienti. Ma… nell’istante in cui riusciamo finalmente a viverlo dopo tante attese ecco che se ne va; questo tempo tanto desiderato una volta raggiunto diventa “sfuggevole”. Questa è la percezione del tempo che credo abbiamo tutti noi. Ma questi che io qui chiamo “tempo delle attese” e “tempo sfuggevole” vengono denominati da nostro caro filosofo Henri Bergson con un solo termine: “tempo della coscienza” che lo distingue dal “tempo della scienza”. Quindi avremmo un tempo soggettivo e uno oggettivo.

Per spiegare meglio questa distinzione partirei proprio dalla critica che Bergson muove allo scientismo (non alle scienze in quanto tali), in particolar modo alla psicologia scientifica di stampo positivistico, che qualifica l’attività psichica, la riduce a dati che vengono rappresentati spazialmente, misurati, calcolati. Per lui il tempo della coscienza non è spazializzato. La vita della coscienza per Bergson, col suo incessante fluire, è qualcosa di irriducibile ai dati: non è discontinua, ma continua; non è statica, ma dinamica; è costituita da fenomeni qualitativi e non quantitativi ed è caratterizzata da intensità e non da estensione. Abbiamo, quindi, due diverse concezioni di tempo: da una parte una durata omogenea e quantitativa, dall’altra una durata eterogenea e qualitativa.

 

Il primo, che è il tempo della scienza, non è affatto il tempo reale, bensì è un tempo spazializzato. Dalla scienza il tempo viene considerato come una successione di istanti, descrivibile attraverso una linea costituita da una serie infinita di punti. Il punto, l’istante, e la successione di punti e istanti costituiscono come dei momenti di arresto del tempo, perché solo attraverso questi il tempo può essere misurato e calcolato. Si dice tempo spazializzato proprio perché gli istanti, per essere distinti l’uno dall’altro, devono essere prima resi “simultanei” e “omogenei”: cioè disposti nello spazio (come sul quadrante di un orologio) e resi indifferenziati qualitativamente, distinguibili solo in funzione del loro numero.


Poi c’è il “tempo vissuto”, ovvero il tempo della coscienza. Esso non è costituito da una successione di momenti statici, esteriori l’uno rispetto all’altro, “contati” come porzioni di spazio, ma è avvertito proprio come un flusso continuo, come un movimento incessante di stati di coscienza, ciascuno dei quali preannuncia quello che lo segue e contiene quello che lo precede. Bergson, inoltre, paragona questo fluire, che è anche un conservare, all’arrotolarsi di un filo su un gomitolo, poiché il nostro passato ci segue, e s’ingrossa, senza sosta, del presente che raccoglie sul suo cammino. Dunque coscienza, che per Bergson significa “memoria”.

Henri Bergson

 

Non è il prodotto di una speciale facoltà, ma è lo stesso processo della coscienza che si conserva e si crea, nel fluire continuo dei suoi momenti. È tempo qualitativo, irreversibile. È il tempo che Agostino aveva descritto come dimensione costitutiva della coscienza (nella quale soltanto era possibile unire il passato e il futuro al presente, saldare ciò che non è più a ciò che non è ancora) e che Bergson riprende e interpreta come “lunga durata”, contrapponendolo al tempo “spazializzato” degli orologi e della scienza. In tale processo il passato si lega all’avvenire, è progresso nell’avvenire.

 

Il tempo della coscienza è durata reale, in cui vi sono due momenti identici. Così l’io non è quello che appare alla psicologia sperimentale, che lo descrive come una porzione di spazio, come una successione discontinua di stati fra i quali vengono stabilite relazioni e regole associative e che vengono così misurati. L’io è, invece, libertà, temporalità, durata, flusso unitario di stati. È identità del passato col presente e irruzione del futuro, novità incessante e inesauribile, come tale non accertabile mediante le leggi del determinismo causale, che presuppongono, invece, un distanziamento del passato dal presente.

 

Riprendo un passo dal Saggio sui dati immediati della coscienza di Bergson:

“Ci sono […] due possibili concezioni della durata, l’una priva di ogni mescolanza, l’altra nella quale interviene surrettiziamente l’idea di spazio. La durata assolutamente pura è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza, quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore. Perché ciò avvenga, non ha bisogno di immergersi interamente nella sensazione o nell’idea che si dà, poiché allora, al contrario, cesserebbe di durare. E non ha nemmeno bisogno di dimenticare gli stati anteriori: basta che, ricordandosi di essi, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro, ma che li organizzi con esso, come avviene quando ci ricordiamo le note di una melodia fuse, per così dire, insieme. Ma non si potrebbe dire che, sebbene queste si succedano, noi le percepiamo, comunque, le une nelle altre, e che il loro insieme è paragonabile a un essere vivente, le cui parti, per quanto distinte, si compenetrano per l’effetto stesso della loro solidarietà?”[1]

Dunque, la durata pura, ci dice Bergson, è l’esperienza immediata del tempo nella coscienza; l’altra concezione è data dalla rappresentazione del tempo attraverso il modello dello spazio. Percepire la durata pura significa “lasciarsi vivere”, cioè abbandonarsi al flusso del tempo senza distinguere il momento presente da quello che lo precede: qui il tempo si presenta come un “continuo”, i cui momenti si compenetrano organicamente tra loro, senza la passibilità di stabilire una soluzione di continuità fra il passato e il presente. Come quando ricordiamo una melodia, afferma Bergson, essa appare alla coscienza come un tutto espressivo, così, nella durata pura, il tempo ha una pregnanza qualitativa irriducibile ad una successione di attimi distinti. La durata viene concepita ricorrendo a una metafora biologica, non matematica: un organismo, le cui parti sono inseparabili dall’interno, e, pur essendo distinte, si compenetrano tra di loro in modo da non poter essere immediatamente distinguibili. Il tempo della coscienza, quindi, è “olistico”, cioè viene intuito dalla coscienza stessa come un “tutto”, non come una successione di singole parti.

Federica Buongiorno nel saggio intitolato La linea del tempo, Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl descrive chiaramente i punti teorici in comune tra i due autori riguardo il concetto di tempo della coscienza. L’autrice scrive subito all’inizio del primo capitolo:

“la teoria esposta da Husserl nelle lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo offrirebbe sufficienti puntelli teorici per impostare un confronto con il filosofo francese, al fine di indagare il tema specifico del rapporto tra percezione e memoria e comprenderne il valore fondativo per la coscienza temporale, da un lato, e per il costituirsi dell’idea di un tempo obiettivo, dall’altro. Il nucleo centrale della temporalità di coscienza consiste, tanto in Bergson quanto in Husserl, nel rapporto tra percezione e memoria”[2]

Argomento questo (cioè il concetto di tempo per Husserl) che necessita di un articolo a parte. Intanto consiglio la lettura del libro appena citato.

 

[1] Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, II, in Opere, Mondadori, Milano, 1986

[2] Federica Buongiorno, La linea del tempo, Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl, Inschibboleth, Roma, 2018

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