Sull’isola di Cipro negli anni ‘70, Kostas e Defne vivono un amore bellissimo ma impossibile. Lui è greco e lei è turca. Si incontrano di nascosto nella Taverna del Fico Allegro, un luogo felice dove greci, turchi e inglesi possono svagarsi in armonia in un momento storico che non permette la coabitazione pacifica tra le parti. Quando la situazione porta Kostas a Londra, i due si perdono inevitabilmente di vista ma questo non termina la loro storia. Nel corso del libro, il lettore, come la talea dell’albero di fico recuperata da Kostas nella Taverna, viene trasportato da Nicosia a Londra, dal sole alla pioggia, da un’isola a un’altra isola. Impariamo a conoscere Ada, l’altra narratrice, figlia adolescente di Kostas e Defne, e la sua difficoltà a gestire la perdita di un genitore che, nel suo caso, significa molto di più: la perdita, almeno momentanea, di parte della sua identità.
Un libro che tratta moltissimi temi estremamente attuali: la guerra, la divisione di un territorio, l’identità, l’allontanamento ma anche il ritorno.
Elif Shafak coglie, in questo libro ma anche in tutto quello che lei stessa è, l’essenza delle identità “miste”. Nata in Francia ma cresciuta in Turchia, ha vissuto in Spagna e Stati Uniti prima di approdare a Londra. Scrive in turco e in inglese e custodisce nella sua stessa esistenza la tradizione dell’ ”Est” ma è allo stesso tempo profondamente europea. Un’anima meravigliosa che trasporta nei suoi libri un carico di conoscenze ed esperienze che definiscono il mondo di oggi.
Anche i proprietari della taverna, Yusuf e Yorgos, vivono un amore pericoloso ma incarnano la possibilità, la libertà e la coesistenza tra tradizione e libertà e tolleranza. E’ tramite le pietanze che servono nella loro taverna che ci vengono in mente le tavolate di Ozpetek ne Le Fate Ignoranti e la Istanbul di Fatih Akin in The Edge of Heaven. Ed Elif Shafak permette la coesistenza di tutto ciò, apre le porte ad una terza via.
Così come una talea di un albero cambia volto se trasportata in un altro habitat, anche noi essere umani cambiamo se ci spostiamo. Manteniamo le radici di quel posto, ma l’evoluzione ci rende un pochino diversi e guardiamo alle nostre radici senza necessariamente riconoscerle completamente. Ada, pur sentendosi inspiegabilmente connessa a quell’albero trapiantato nel suo giardino, lo trova un po’ creepy: raccapricciante, losco, sospetto.
Ci vuole tempo per fare i conti con un’identità fluida. E’ più facile, più sicuro, mettere un’etichetta: italiana, inglese, mussulmano, femmina, eterosessuale. Più complicato invece accettare di avere caratteristiche che provengono da diversi mondi e nuances indefinite: se non si definisce, non si conosce, allora è pericoloso. Si trova conforto negli stereotipi… “piove sempre”, “il caffè fa schifo”, “cucini bene”, perché rappresentano prese di posizione e forniscono sollievo. Nel libro, un po’ di gioia e consolazione arrivano con le valigie colorate della zia turca materna Meryem, che passa le giornate a cucinare e parla attraverso modi di dire e superstizioni e riesce a conquistare Ada che, nonostante sia cresciuta in un Paese secolarizzato, trova una connessione con questo personaggio mistico e così diverso, perché in fondo anche “quella cosa lì” è parte di lei…
Il senso d’appartenenza è così importante che non sempre si riesce a vivere la propria identità se ci manca. Non è forse questo su cui fanno leva certi partiti politici? Ma è la diversità, personale e anche della società, che ci rendono chi siamo ed è solo quando abbracciamo l’interezza di chi siamo che possiamo far fronte alle cose più difficili che la vita ci mette davanti: questo libro ce le mostra tutte, e ci porta in viaggio attraverso terre aride e in guerra, calde e spoglie, verdi e piovose, pacifiche e grigie.
Uno dei libri più belli che io abbia mai letto.