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5 romanzi di donne che parlano di donne

Un pomeriggio qualsiasi Mario dice a sua moglie Olga che vuole lasciarla. Dopo quindici anni di matrimonio, due figli e un cane, Mario dice a Olga di sentire un «improvviso vuoto di senso», dice che, a vivere insieme, il corpo dell’altro diventa come un orologio, come «un contatore della vita che se ne va lasciando una scia di angoscia». Mario, dopo anni, lascia Olga e i figli e il cane lupo per un vuoto di senso che ha il nome di un’altra donna, di anni venti.

I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante è la cronaca della discesa negli inferi di Olga, una donna segnata dal dolore e dall’umiliazione, della perdita della percezione di sé cui fa seguito questo abbandono, che sembra non avere limiti. A fare esperienza del vero vuoto di senso è proprio Olga, che si lascia devastare da un uragano di distruzione che mette in pericolo sé stessa e i suoi affetti più cari. È un romanzo difficile da masticare perché funge da cassa di risonanza, amplifica le paure e i sospetti su che tipo di donne, o uomini, siamo veramente, su quanto siamo disperatamente lontani dal baratro della follia che può scatenare la perdita di qualcuno che amiamo, di qualcuno che a un certo punto della sua vita preferisce altro. Una lettura da fare in età matura, dopo esperienze serie di condivisione di vita, di relazioni e investimenti affettivi, altrimenti è difficile afferrarne il senso. Un senso sublime, peraltro, come la scrittura di Elena Ferrante, a mio parere la scrittrice migliore in Italia al momento, uomini inclusi, capace di far rizzare i peli sulle braccia, l’unica in grado di descrivere l’odore di un ex marito come «la memoria dell’odore di un maschio invecchiato che in autobus ci ha strofinato addosso le voglie della sua carne morente». Da novantadue minuti di applausi.

Tara Westover - Drew.mecham - CC BY-SA 4.0

First reaction: shock! Cioè, nel senso, in primis non riuscivo proprio a capire come una persona potesse per anni e anni sopportare una tale serie di violenze familiari e non ribellarsi o quantomeno fuggire via e basta. Poi ho ricordato chi sono, cosa ho studiato e il lavoro che faccio e tutto ha riacquistato senso. Tutto questo per dire che L'educazione di Tara Westover è un romanzo che destabilizza parecchio, che fa infuriare, che mette paura, perché niente fa più paura che il male perpetrato da chi ci vuole bene, da chi dovrebbe farci sentire sempre al sicuro. La protagonista, Tara appunto, è una ragazza cresciuta fra le montagne dell'Idaho in una comunità mormonica all'interno della quale la sua famiglia si distingue in eccentricità. Ultima di sette figli, non è mai andata a scuola, non è mai stata visitata da un dottore, non possiede un certificato di nascita e si prepara incessantemente per un giorno del giudizio che non arriva mai. Il padre è completamente schiavo dei suoi deliri e delle sue paranoie, la madre ha fatto della negazione il suo modo di sopravvivere, il fratello maggiore è pericoloso come un petardo inesploso. Tutti sono invischiati in una resina familiare affettiva soffocante come sabbia in gola. Non sembra poterci essere via d'uscita, solo una tragica coazione a ripetere, ma Tara ce la fa grazie all'educazione, allo studio, alla scoperta di un mondo alternativo. Un percorso irto di ostacoli, cadute e ricadute, e della necessaria scoperta della solitudine creativa. L'argomento non è nuovo in letteratura, sia ben chiaro, ma è trattato in modo efficace e coinvolgente. E poi prende allo stomaco, motivo sufficiente per farmelo divorare.

Favola nera, romanzo di de-formazione, L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito, ci regala una protagonista cattiva, finalmente, di cui non si può fare a meno di seguire con avidità le vicende. Ne ho lette tante sul conto di questo romanzo, e le critiche si concentrano soprattutto su errori stilistici e narrativi dei quali non mi sono nemmeno accorta. Mi sono talmente calata dentro questa storia che a leggere queste critiche sono letteralmente caduta dal pero. Gaia nell’arco di 300 pagine da bambina diventa adolescente e poi adulta, e lo fa con cattiveria. In casa, una casa popolare nel comune di Anguillara Sabazia, è una ragazza remissiva, pronta a chinare la testa ad ogni richiesta della madre capofamiglia, una roccia contro la quale si schiantano le ingiustizie sociali di ogni santo giorno, che si prende cura del marito invalido e dei quattro figli con il massimo della concretezza e il minimo dell’espressione affettiva. Appena alza la testa, negli occhi di Gaia si scorge un’oscurità particolare, pronta a prendere il sopravvento ogni volta che subisce un affronto, e che prende la forma della violenza più cruda, della vendetta più banale. Siamo tutti stati adolescenti, conosciamo tutti quindi la rabbia quali dimensioni apocalittiche possa assumere nella nostra testa, e leggere di un personaggio letterario che si prende la responsabilità di agirla questa rabbia è per me stato, come dire, liberatorio. Quelle che compie Gaia nel romanzo sono azioni socialmente, moralmente e legalmente inaccettabili, aberranti, ma che mi hanno riempito di soddisfazione, perché almeno sulla carta per una volta le ingiustizie subite da qualcuno sono state ripagate, perché alcune cose sono state dette per quelle che sono, senza vergogna, senza rimorsi, senza la paura di fare brutta figura o di finire in galera. Con un grande insegnamento finale, oserei dire, ovvero che anche ad essere cattivi, alla fine, il dolore, la sofferenza e le delusioni non ci vengono risparmiati, e l’amore ed il rispetto non ci vengono dati di diritto, anzi. Tanto vale provare ad essere migliori di quel che si è, e vedere l’effetto che fa.

Irène Némirovsky all'età di 25 anni

Ci hanno provato, i nazisti, a farla stare zitta. L’hanno uccisa ad Auschwitz nel 1942, Irene Nemirovsky, ma hanno comunque fallito. Perché Irene ha continuato a parlare attraverso i suoi libri, soprattutto attraverso il suo capolavoro, Suite francese, e ci ha detto una cosa che, credo, il nazismo voleva tenerci segreta e che riguarda tutte le guerre. Ovvero che la guerra la combattono i “poveri", a qualsiasi fazione appartengano, e che i grandi capi passano il tempo a far finta di ragionare e ad ingrassare le loro pance. Che tutti i giovani mandati a combattere erano figli, fratelli, mariti e padri di qualcuno, e che non vedevano l’ora di tornare a casa, anche quelli tedeschi. Che a voler davvero conteggiare quanti condividessero le idee e la politica del führer, forse non sarebbero riusciti nemmeno a occupare Frittole. E a dirlo è stata Irene, una perseguitata che avrebbe dovuto avere in corpo tanto odio quanto peso. Ne abbiamo di cose da imparare.

Annie Ernaux - Lucas_Destrem - CC BY-SA 3.0

È molto complicato parlare di questo romanzo, incominciamo per piccoli passi. Annie Ernaux scrive L’evento per raccontare ciò che poteva accadere ad una studentessa ventitreenne francese nel 1963 dopo aver scoperto di essere incinta e di voler abortire. In Francia, all’epoca, l’aborto era ancora illegale. L’autrice lo racconta, e per scrivere non usa la penna, ma un bisturi. L’evento è un romanzo breve, circa cento pagine, ma non lo dimenticherò mai. Crudo, essenziale e drammatico, con una scena (pagine 90 e 91) al limite del tollerabile. La solitudine della ragazza, la sua disperazione, la sua decisione che non vacilla mai e la espone al giudizio, il muro eretto dai medici cui si rivolge, l’invisibilità della famiglia, la solidarietà inaspettata con altre ragazze, il disinteresse del compagno, l’incontro con la mammana e poi, infine, l’aborto. E voglio dire ancora un’altra cosa, questo non è un libro qualsiasi, è un libro sulla maternità consapevole, sul diritto sacrosanto della scelta, qualsiasi siano le vostre idee sull’argomento. Certo, da mamma di una bambina di quattro anni, la lettura di questo libro è stata molto difficile (ah la proiezione!), ma mia figlia un giorno sarà una donna e io voglio che sia una donna libera di poter fare le sue scelte. È la cosa che desidero di più al mondo.


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