Nel 2001 per molti di noi Seattle era troppo lontana, non tanto nel tempo, quanto nello spazio. Prima di Genova, più vicina era Napoli: nella città partenopea infatti dal 15 al 17 Marzo di quell’anno si era svolto il Global Forum O.C.S.E. (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Si tratta di un vertice internazionale che riuniva i tecnici e i rappresentanti dei paesi più ricchi del mondo per discutere di rete telematica mondiale e di digital divide, un’espressione anglosassone che riguarda quanti sono esclusi dai vantaggi della società digitale ovvero i paesi in via di sviluppo. Un evento secondario e meno rilevante sul piano mediatico rispetto al G8, tuttavia di rilievo internazionale e il primo del genere in Italia. Se i vantaggi dell’accesso al world wild web sono tuttora a cuore ai potenti del mondo, che per la prima volta si riunivano in suolo italiano, alla rete No Global Forum la stessa questione interessava per i motivi esattamente opposti: anti-capitalisti, nel lessico tradizionale, anti-globalizzazione, per ricorrere invece a un termine molto usato in quegli anni e che oggi usiamo di meno, verosimilmente perché il fenomeno della mondializzazione economico-commerciale è oggi una realtà consolidata, che ha prodotto ormai i suoi effetti di interdipendenza multilivello da un capo all’altro del globo.
Ad ogni modo Napoli divenne un banco di prova per tutti, potenti e meno potenti. Per contrastare il summit, che vide la partecipazione di oltre mille delegati internazionali, il movimento No Global Forum infatti decise di usare gli stessi strumenti che stavano a cuore al commercio internazionale: la rete, le risorse digitali, la possibilità di trasmettere dati in tempo reale. E andò tutto bene, fino alla mattanza del 17 Marzo, quando nella così detta zona rossa le cariche di celerini e carabinieri aggredirono i manifestanti. Intanto però la rete No Global aveva funzionato, centrando i suoi obiettivi in maniera non violenta. Dalle proteste simboliche presso i McDonald’s cittadini di sensibilizzazione anche contro gli OGM, al netstrike contro FINECO, per intasare il sito internet di un gigante dell’economia finanziaria e intrappolarlo in una rete di click esattamente come il trading online andava intrappolando nella sua rete gli scambi globali, al mail bombing contro alcune agenzie di lavoro interinale e precario, alla occupazione delle facoltà di Architettura e di Lettere, per strutturare i media center del movimento, sulla scia dell’Indymedia (Indipendent Media Center) di Seattle appunto, che inaugurò la pratica del mediattivismo, ovvero dell’attivista che con i propri strumenti digitali documenta la piazza e racconta la protesta, novità delle novità, 24 ore su 24; durante un corteo di protesta, antecedente quello ufficiale, furono anche oscurate con della vernice le telecamere di videosorveglianza perché ritenute strumenti di controllo sociale; fu infine creato un sito fake dell’O.C.S.E., in cui incapparono molti delegati e giornalisti. Tutto insomma stava andando bene: la guerriglia comunicativa e il giornalismo virtuale, la protesta contro i simboli stessi della globalizzazione, che volatilizzava il lavoro e destrutturava le reti locali a favore di un controllo virtuale sull’economia globale potenzialmente avulso da ogni controllo sociale. Si voleva di fatto colpire ‘pacificamente’ l’e-government, oggetto di discussione da parte del Global Forum, partendo dai suoi stessi cardini e contro lo sfruttamento di risorse umane, territoriali e ambientali. E tutto continuava a procedere bene, nonostante la conferma del Global Forum a Napoli fosse stata data molto tardi, proprio per evitare che i movimenti antagonisti si organizzassero in una città ritenuta dal Viminale ‘calda’.
Ma chi contribuiva a rendere la città “ad alto rischio di disordini”? Associazioni – Rete Lilliput, Mani Tese, Cooperativa O’ Pappece, i Padri comboniani – area dell’autonomia – Officina 99 e SKA – area istituzionale – Rifondazione e Verdi –, nonché Cobas, movimento dei disoccupati e del diritto alla casa, degli anarchici, etc.
Napoli fu la prima città italiana a sperimentare la zona rossa, che aveva inglobato il centro storico per circa 3 kmq a partire dal Palazzo Reale. Proprio a ridosso della barriera di Piazza Municipio il grande corteo del 17 Marzo fu assalito dalle cariche antisommossa, che già i manifestanti avevano sperimentato in via Mezzocannone prima e a Piazza Borsa poi a mo’ di alleggerimento, e che si riversarono con una violenza bellica contro giovani e non, che avanzavano al grido di No Pasaran-Jatevenne! Bastonate, calci del fucile, schiaffi, pugni, lacrimogeni all’impazzata con sostanze urticanti. Spezzata la testa, il corteo fu aggredito ai fianchi, e le persone, anche semplici passanti, costrette a fuggire per i vicoli del Porto e del Pendino, qualcuno fu addirittura spinto lungo il fossato del Maschio Angioino cadendovi dentro. Gli elicotteri sorvegliavano dall’alto, dal basso persino i soccorsi stentavano, come denunciato da più parti dalle vittime del Global Forum di Napoli.
Chi scrive abitava a ridosso della zona rossa: scampata per un pelo alla carica delle forze dell’ordine, a stento trovò la strada di casa, accecata com’era dai lacrimogeni e, una volta al quinto pianto, assordata dalle eliche di un elicottero che rimbombava quasi immobile sul tetto del proprio appartamento, offriva riparo alle persone che ancora si riversavano terrorizzate, su per i vicoli del centro storico, aprendo il portone dello stabile. Sembrava un inferno. Ovunque una sensazione dilagante di soffocamento. Ovunque una violenza fuori misura rispetto ai temi di cui ognuno di noi si sentiva portatore.
Questo fu il banco di prova del G8, tenutosi poi a Luglio a Genova, decisamente più rilevante e mediatico del Global Forum di Napoli, ma del quale le tappe, tristemente note ai più, furono di fatto testate nel capoluogo campano. Non ci scappò il morto, per fortuna, ma le scelte, strategiche e metodologiche, lungi dal voler garantire la sicurezza ai cittadini dai cittadini stessi, iniziarono piano piano a criminalizzare un movimento che pure si agganciava a livello globale alle istanze di giustizia sociale, di tutela ambientale, di rispetto dei diritti umani, di sicurezza alimentare.
Genova - Fatti del G8 del 20 luglio 2001 Carica della polizia a Corso Torino - Ares Ferrari, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons Lo studente italiano CARLO GIULIANI (1978 - 2001 ) in un ritratto fotografico. Ucciso all'età di 23 anni a Genova, durante la contestazione No Global al G8 di Piazza Arimonda, il giorno 20 luglio 2001, da un carabiniere di nome Mario Placanica |
Il tempo piano piano ha dato ragione a tutte le vittime di quegli anni, quelli della Caserma Raniero e della Caserma Pastrengo di Napoli, della Scuola Diaz di Genova, di Piazza Alimonda e dei vinti senza appello. Resta per tutti il rammarico, ben riassunto da tante voci che ancora si levano davanti alla violenza alla quale, dopo Genova, abbiamo continuato ad assistere per esempio in Val di Susa e per gli Indignados del 2011 a Roma. Progressivamente più silenziose, forse, o peggio, rassegnate. Erano anni di grande attivismo anche giovanile, in cui era tra l’altro chiaro il discrimine tra notiziabilità, per restare nell’ambito della informazione scientificamente fondata, e contenuto, tra cronaca e processi di acquisizione progressiva di consapevolezza, tra libertà e partecipazione. Le persone mostravano voglia di contribuire alle dinamiche mondiali, frequentavano le piazze reali e virtuali, si interrogavano sui possibili scenari futuri, avendo tante alternative su cui riflettere: era tutto questo un humus favorevole al voto?
Fonti:
Intervista a Daniele Maffioli – Adil https://youtu.be/ALBh8e2NDcQ?si=UNLLchLgjwSnFHt5; https://youtu.be/97Cd1dFkKfY?si=yZflg61VbYJw7Z71