È difficile liberarsi interamente dell’uomo.
Immanuel Kant
Mi sembra di vederlo. Sotto il peso dei suoi anni, tra le strade lastricate della cittadina prussiana. Passeggia al solito orario, così puntuale che gli abitanti, quando passa, controllano gli orologi per verificarne la precisione. L’Emile di Rousseau tra le mani, talmente logoro che i fogli si staccano, e lui, Immanuel Kant, silenzioso e meditabondo, raggiunge la panchina su cui abitualmente siede volgendo le spalle al castello di Königsberg.
A chi sono rivolti i suoi pensieri? Alle conversazioni con gli amici e allievi? A sua madre? Al padre, il vecchio sellaio? Alle difficoltà economiche di famiglia? Ai rapporti interrotti con le sorelle, invidiose della sua raggiunta posizione? Agli amori perduti, forse? Alle censure che il potere gli ha imposto e che lui ha dovuto combattere con la ragione e la ricerca della verità? O alle domande che hanno accompagnato l'itinerario filosofico della sua esistenza longeva?
«Ogni interesse della mia ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si concentra nelle tre seguenti domande: Che cosa posso sapere? Che cosa posso fare? Che cosa ho diritto di sperare?»
Scrisse nel 1781, in età avanzata, nella Critica della ragion pura. «Il grande animale», come la definirono i suoi avversari.
Ma era sicuramente la saggezza morale, l'interesse pratico, ciò che gli stava a cuore. In fondo quel "grande animale" a tale scopo era nato. Per questo il vecchio di Königsberg vi mise mano realizzando un vero e proprio capovolgimento concettuale, la sua rivoluzione copernicana. E si impegnò nell’impresa titanica di correggere, revisionare, superare gli errori metodologici di una struttura concettuale atavica, tradizionale, a cui tutti eravamo abituati e a cui, forse, ancora oggi, siamo tanto affezionati far fatica ad abbandonare.
«Io stesso, per inclinazione, sono un ricercatore. Avverto tutta la sete di conoscenza e la smania di progredire in essa, così come la soddisfazione per ogni nuova acquisizione. Un tempo credevo che questo soltanto costituisse l’onore dell’umanità, e disprezzavo il popolo che non sa nulla. Rousseau mi ha messo sulla strada giusta. Svanisce questa superiorità accecante; imparo a onorare gli uomini, e mi sentirei di gran lunga più inutile di chi fa il lavoro più comune se non credessi che questa considerazione possa conferire valore a tutte le altre, per stabilire i diritti dell’umanità.»
Era la sua confessione negli Appunti alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime.
Partire dalle persone e dal loro senso morale vissuto, dunque. Ecco cosa doveva fare. Cosa era urgente fare. E c’era bisogno di parole inedite, di un metodo nuovo che è costato fatica anche a lui, perché aveva a disposizione solo quel linguaggio vecchio, la soma ingombrante di un sistema ormai logoro. Ed era come mescere vino nuovo in otri vecchi.
Perciò il capovolgimento era necessario, per cogliere la saggezza di chi si chiede: cosa debbo fare? E no, non spettava a Kant, non spettava al filosofo, a nessun filosofo dare risposte, inventarsele. Ma alla gente semplice, dinanzi a cui lo spirito del dotto si inchina, perché persino i bambini sanno cosa si deve fare per agire, cos'è l'agire giusto: è dalla conoscenza ordinaria e semplice che la filosofia deve partire e il filosofo deve apprendere.
«La vera saggezza è compagna della semplicità, e siccome in questa il cuore dà norme all’intelletto, così essa rende comunemente inutili tutti i grandi apparati di dottrina.» (Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica).
Ma allora qual è il compito filosofico, il suo statuto conoscitivo? A cosa serve la filosofia? Cosa la differenziava dal conoscere della gente semplice e dal suo parlare? Con quale lingua bisogna esprimersi per descrivere filosoficamente la vera saggezza, quella semplice, e mostrarne le condizioni di possibilità? Quale metodo?
Se l'intenzione di Kant era di narrare le esperienze morali delle persone semplici, con una narrazione nuova, che non si anteponesse a esse e al loro modo di (auto)narrarsi; se per farlo era indispensabile prendere le distanze da vecchi approcci e inefficaci modelli, che non avevano saputo cogliere, per arroganza, quelle esperienze adeguatamente; se questo bisogno di adeguatezza richiedeva di capovolgere quei modelli e approcci nella novità della sua rivoluzione copernicana; era necessario allora interrogare le esperienze, sentire cosa avevano da raccontare, vederle nel loro farsi concreto, chiarirne i significati, i segni, i linguaggi, i concetti d’uso pratico e ordinario. Ed ecco che nel suo percorso riflessivo, Kant, moderno Socrate, attraverso un lavoro maieutico, dove il filosofo(Kant) incontrò l'uomo(Kant), riuscì a dar voce alle esperienze umane.
Sì, a dar voce, una voce filosofica. E ne face emergere una Legge, la Legge morale, quella con cui il cuore dà norme all'intelletto. Senza andare lontano, senza doverla cercare al di là di se stesso. Ma in sé, nel suo stesso farsi, in vivo, nel suo stesso prodursi autonomo, nel suo autoprodursi, in ciò che accomunava tutti gli esseri umani e ci riempie di meraviglia e stupore.
«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.»
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